Arabia Saudita, il bersaglio principale
Venerdì lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco suicida con una cintura esplosiva che ha ucciso venti persone e ne ha ferite cinquanta in una moschea sciita ad al Qudaih, in Arabia Saudita. L’attentato ha colpito la parte orientale del paese, dove la minoranza sciita coabita in uno stato precario di ostilità sospesa con la maggioranza sunnita. S’intende che scrivere “maggioranza sunnita” è un eufemismo: il regno saudita è la culla mondiale della professione wahabita dell’islam, rigidissima e ispiratrice di estremismi armati un po’ in tutto il mondo, incluso anche quello dello Stato islamico (in taluni casi questa ispirazione prende anche la forma di finanziamenti lautissimi). In questo senso, è quasi un ritorno a casa – dal punto di vista dell’ideologia (la casa vera resta l’Iraq). Nella rivendicazione lo Stato islamico ha anche annunciato la creazione di una sua nuova “regione” saudita, il Wilayat Nadj, dal nome (Nadj) della grande regione centrale dell’Arabia Saudita.
L’operazione è simile, anche se più ridotta, a quella per annunciare la nascita dello Stato islamico in Yemen: ci furono cinque attentatori in cinque moschee sparse in tutto il paese, con un bilancio finale superiore a 140 morti. Il discorso di trentaquattro minuti del capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, messo su internet la settimana scorsa, era in gran parte focalizzato sull’Arabia saudita, chiamata “Wilayat Bilad al Haramayan”, la regione dei due luoghi santi. L’Arabia Saudita da dieci anni teneva più o meno a bada l’estremismo interno, che considera i regnanti e la casa Saud come una banda di usurpatori che vivono l’islam in modo ipocrita. Il governo ha fatto campagne quasi miracolose per spegnere il terrorismo di casa. Ma vive la condizione ambigua, a essere clementi, di sponsor mondiale della ideologia che ha creato lo Stato islamico. Il problema per ora toccava gli altri, adesso sta diventando anche dei Saud.