Processare un giornalista a Teheran
Martedì si è tenuta a porte chiuse a Teheran la prima udienza del processo al giornalista del Washington Post Jason Rezaian, iraniano-americano (ma l’Iran non riconosce la doppia cittadinanza), accusato di spionaggio “a favore del governo ostile degli Stati Uniti”, scrive l’agenzia Irna, e di propaganda contro la Repubblica islamica. Rezaian è a capo dell’ufficio di Teheran del quotidiano americano dal 2012, da dieci mesi è detenuto nella prigione di Evin, il centro in cui durante le proteste dell’Onda verde, nel 2009, entrarono e scomparvero molti giovani manifestanti (per i primi due mesi con lui c’era anche la moglie, poi liberata dietro il pagamento di una cauzione): secondo il Washington Post, Rezaian non ha potuto scegliere il suo avvocato e ha avuto un colloquio durato soltanto un’ora e mezza con il legale che gli è stato imposto.
Non ci sono prove, le accuse sono “assurde”, dice il quotidiano, che ha anche cercato di inviare uno dei suoi dirigenti a Teheran, ma la domanda di visto è rimasta senza risposta. Non si sa quando ci sarà la prossima udienza, ma intanto il processo ha proiettato un’altra ombra sul negoziato in corso sul programma nucleare di Teheran: c’è chi spera che la questione venga risolta allo stesso tavolo, ma si tratterebbe comunque di un’eccezione ad personam. L’Onu ha contato, tra giugno 2013 e giugno 2014, 852 condanne a morte in Iran (soprattutto impiccagioni), il trend continua anche quest’anno, anzi secondo alcune ong si è intensificato (ci sarebbe stato un picco brutale ad aprile), ma i diritti umani non sono in testa all’agenda di questi incontri, non lo sono mai stati e non lo sono ormai più in nessun altro negoziato. Il realismo e la determinazione di Barack Obama a ottenere un deal con l’Iran hanno avuto il sopravvento, per la violazione dei diritti umani non si alza più nemmeno un sopracciglio.
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