Negoziati al suk di Istanbul
Piano a dire che la sconfitta al voto ha fatto fuori Erdogan il sultano
Roma. La batosta presa alle elezioni politiche di domenica non fermerà il presidente turco Recep Tayyip Erdogan nella sua opera di consolidamento del potere e di dominio della Turchia. Dopo il voto, in cui il partito fondato da Erdogan, l’Akp, ha avuto il 41 per cento dei consensi e per la prima volta in 13 anni non è riuscito a ottenere la maggioranza di 276 seggi necessaria per governare da solo, molti commentatori hanno scritto che per la Turchia è la fine di un’èra. Con poche eccezioni, il commento post elettorale prevalente è stato: Erdogan sarà costretto a cambiare, gli elettori gli hanno mostrato che i progetti di riforma in senso presidenziale della Turchia, su cui l’Akp ha basato tutta la sua campagna elettorale, non sono i benvenuti. In particolare l’ingresso in Parlamento del partito curdo Hdp, che ha corso su una piattaforma libertaria e di sinistra con il suo giovane leader Selahattin Demirtas e per un gioco elettorale ha negato all’Akp la maggioranza, ha convinto molti che nel paese è iniziato il declino del dominio del sultano.
Ma con una base elettorale fortissima (in quale altro paese un partito con oltre il 40 per cento dei consensi sarebbe considerato perdente?) e un mandato da presidente della Repubblica destinato a durare ancora quattro anni, Erdogan sembra pronto a tutto tranne che alla resa.
Lunedì il presidente, che non correva alle elezioni ma non ha nascosto per tutta la campagna elettorale le sue preferenze per il candidato dell’Akp, il premier Ahmet Davutoglu, ha ammesso che nessuno dei partiti ha i numeri per governare da solo, e ha chiesto alle forze politiche di agire in maniera “realistica” nei negoziati per la formazione di un governo di coalizione o di minoranza. Ma qualunque siano i risultati dei negoziati (i due più probabili: un’alleanza tra l’Akp e il partito nazionalista Mhp, e una traballante alleanza anti Akp tra i tre partiti d’opposizione, Hdp, Mhp e i kemalisti del Chp) Erdogan userà il suo ruolo di arbitro per determinarne l’esito, e porre condizioni a lui favorevoli. “Anche con la Costituzione attuale Erdogan ha ancora molti poteri che può usare per facilitare un governo e ostacolarne un altro”, dice al Foglio Joost Lagendijk, analista, ex europarlamentare di origini olandesi e columnist per molti giornali turchi. “Soprattutto, è ancora il leader di fatto dell’Akp, di gran lunga il più grande partito in Parlamento”. E’ il presidente che sceglie a chi dare il mandato per formare il governo, e per Erdogan, paradossalmente, un governo debole potrebbe essere un vantaggio. E’ da quando è stato eletto presidente che sta assumendo poteri affidati al premier, svuotando di significato il potere esecutivo. Un governo traballante non farebbe che accentuare questo processo e dare a Erdogan una riforma presidenziale di fatto. Nelle sue mani, inoltre, c’è l’arma definitiva, le elezioni anticipate che il presidente può convocare a 45 giorni dal voto se i partiti non trovano un accordo.
[**Video_box_2**]Dicono gli analisti che a Erdogan basterebbe riportare la sua piattaforma un po’ al centro per convincere molti elettori delusi a tornare a votare Akp. Un periodo di instabilità politica potrebbe spaventare molti, e il governo ha già iniziato ad approfittarne: “Bentornata vecchia Turchia”, ha twittato il ministro dell’Economia lunedì, mentre la lira turca e la Borsa di Istanbul crollavano.