Come sarà la Libia nel 2016
La settimana scorsa lo Stato islamico è stato cacciato via dalla sua capitale in Libia, la città costiera di Derna (ha in mano un’altra città però, Sirte). A cacciarlo non è stato uno dei due governi del paese, oppure qualcosa che assomigli seppure con vaghezza a un esercito regolare, bensì un gruppo jihadista (l’Assemblea della Shura dei Mujaheddin) che è parente stretto di al Qaida. Insomma, la situazione in Libia è a tal punto disastrosa e paradossale che gruppi terroristici efferati contendono il territorio a gruppi terroristici ancora più efferati, mentre le operazioni via aria degli Stati Uniti hanno fallito la settimana scorsa nell’uccidere Mokhtar Belmokhtar, uno dei più importanti leader di al Qaida nel nord Africa, responsabile dell’assedio del sito petrolifero in Algeria, nel 2013, in cui morirono 38 civili (Belmokhtar non è sulla lista degli uccisi). Questo quadro rende urgente il dibattito sulle opzioni possibili per stabilizzare il paese, visto che l’offensiva diplomatica onusiana di Bernardino León è, di nuovo, sull’orlo del collasso. La crisi dei migranti che sta sconvolgendo l’Europa e soprattutto l’Italia, con buona pace per la tanto conclamata solidarietà europea, nasce dall’instabilità della guerra in Libia, dove non ci sono interlocutori affidabili – il governo di Tobruk, riconosciuto dall’occidente, ha appena rifiutato l’ultima proposta di pacificazione dell’Onu – e dove gli jihadisti stanno occupando ogni vuoto di potere possibile. Che cosa fare allora? Molte ipotesi sono in discussione, ma per ora la foglia di fico diplomatica ha lasciato soltanto trascorrere più tempo, aggravando la situazione. Abbiamo allora chiesto ad alcuni esperti che cosa pensano che possa accadere, e come si immaginano la Libia nel 2016.
Lo smembramento è possibile
La Libia è un problema dentro il più grande problema della ridefinizione dei confini e della competizione in tutto il medio e vicino oriente. Fin dall’inizio del processo di pace in Libia bisognava pensare di far parlare tra loro i governi di Egitto e Turchia, i due principali sponsor dei governi libici di Tobruk e di Tripoli. Siccome c’è forte rivalità tra gli stati in questione è evidente che se gli sponsor non sono d’accordo anche i due governi locali non si accordano. Senza queste condizioni, qualsiasi colloquio di pace continuerà a essere una delle normali, inutili perdite di tempo cui si dedicano le diplomazie. Se la Libia fosse un caso isolabile si troverebbe il modo di fare una conferenza internazionale e affrontare il problema libico con una missione di peace enforcing. Ma qui c’è la competizione tra potenze, tutto si intreccia in un grande risiko in cui gli attori sono in conflitto tra di loro, e la Libia è solo una delle facce dell’infezione. Non si riesce a tamponare il problema libico senza tamponare altri problemi del medio oriente, è necessario anzitutto bloccare l’espansione dello Stato islamico e trovare una soluzione negoziata per il dopo Assad in Siria. Nel futuro della Libia esiste dunque la possibilità di uno smembramento, soprattutto se una delle due fazioni non riesce a prevalere con la forza sull’altra. Ma lo smembramento non significa soltanto che una parte del paese finisce sotto l’influenza egiziana, cosa cui il Cairo mira: anche l’altra parte deve trovare un qualche ordine politico. Certamente, che la situazione resti così com’è per noi è la soluzione peggiore di tutte. Ma un’operazione militare in Libia dipende dalle condizioni. Dipende da quanti paesi partecipano, da quali sono gli obiettivi: o c’è un intervento militare a favore di una delle fazioni, oppure un intervento militare è solo l’anticamera di un grande disastro. L’ipotesi di un intervento militare nasce dal fatto che la crisi libica ha trasformato il paese in una porta aperta per l’immigrazione. Ma se non si risolvono alcuni nodi e non si capisce chi interviene per cosa e a favore di chi, non ha neanche senso parlare di intervento militare. Per questo è necessario che dopo il cambio alla Casa Bianca, dopo la fine della presidenza Obama nel 2016, gli Stati Uniti tornino a un ruolo più assertivo anche in medio oriente. Se non accadrà, non vedo nessun ordinatore possibile, nella regione c’è una serie di potenze che sono in grado di bloccarsi a vicenda, ma nessuno ha la forza di imporre l’ordine. E lo Stato islamico, che per ora ha una presenza limitata in Libia ma si espande laddove le strutture statali sono collassate, potrebbe approfittare di questa situazione se i governi locali e i loro partner internazionali non riusciranno a dare ai libici la sensazione di riuscire a governare il caos.
Angelo Panebianco, politologo e saggista, editorialista del Corriere della Sera (testo raccolto in redazione)
Negoziato, ma operazione militare pronta
Il negoziato di pace tra i due governi di Tripoli e Tobruk continuerà, ma per essere credibile deve avere sullo sfondo la possibilità di un intervento militare. Il rischio che lo Stato islamico dilaghi ulteriormente nelle città costiere del nord non è accettabile. La comunità internazionale deve perseguire la strada del negoziato, ma preparare le condizioni per un’operazione militare. Un’eventuale operazione deve avere come base una coalizione che preveda una fortissima responsabilizzazione dell’Egitto, il cui presidente, Abdel Fattah al Sisi, condivide con noi gli stessi obiettivi di contrasto allo jihadismo estremista. Sono invece poco probabili le voci di uno smembramento del paese, anche se un ritardo nella composizione del conflitto creerebbe una divisione di fatto. Sarebbe utile dare legittimità internazionale a tutti e due i governi, anche perché la Libia vive la situazione paradossale in cui un membro della Nato, la Turchia, sostiene il governo islamista di Tripoli, mentre l’occidente sostiene il governo di Tobruk. Sull’immigrazione, invece, in Libia sarà necessaria un’azione molto più decisa sul terreno. L’Europa in questi giorni sta mostrando il suo lato peggiore, di totale deresponsabilizzazione. I trafficanti di uomini sono da trattare alla pari dello Stato islamico, vanno contrastati con un misto di azioni. L’affondamento dei barconi va bene, ma già oggi ci sono alcune iniziative delle forze speciali americane molto utili, sul modello pachistano e yemenita, che vanno a colpire i centri di comando, e le leadership dei terroristi e dei trafficanti. Anche in questo modo si riuscirà a trovare un argine allo Stato islamico. L’espansione del gruppo terroristico sulla città costiera di Derna ha subìto una fase di arresto, e io sono ottimista sul fatto che entro un anno si riuscirà a sconfiggere lo Stato islamico in Siria e Iraq e a limitare in questo modo anche i movimenti imitativi come quello in Libia.
Gianni Vernetti esponente del Pd, ex sottosegretario agli Affari esteri del governo Prodi (testo raccolto in redazione)
Tutto passa da al Sisi
Il ruolo centrale nel negoziato sulla Libia è giocato dal Cairo e solo una pressione concentrica da parte americana, saudita e italiana può portare Sisi a cambiare linea, appoggiando un accordo di spartizione del potere invece che la lotta senza quartiere agli islamisti. Se queste pressioni ci saranno e avranno effetto (la deadline era l’inizio del Ramadan, ma è saltata), Bernardino León annuncerà un accordo sulla Libia. Si tratterà di un accordo limitato, per la nascita di un governo fragile. Creerebbe un interlocutore formale unico per l’occidente ma non metterebbe fine ai combattimenti. Soprattutto perché lo Stato islamico è in ascesa ma anche perché i duri di entrambe le parti non necessariamente deporrebbero le armi. Questo è lo scenario ottimista in cui, grazie alle pressioni sull’Egitto e i suoi alleati libici, si arriva alla formazione di un governo di unità nazionale che metta insieme pezzi di Tobruk, la gran parte di Misurata e una parte di Tripoli, con alcuni esclusi “eccellenti” come il generale Haftar o Ibrahim Jadhran, capo delle guardie petrolifere che già bloccarono la produzione tra il 2013 ed il 2014 e ora è in odore di accordi sottobanco con lo Stato islamico. Questo governo avrebbe il controllo delle istituzioni economiche (che non è poco), ma dal punto di vista militare si appoggerebbe ai cessate il fuoco locali in vigore in Tripolitania – e nei quali i servizi italiani hanno giocato un ruolo. Da un eventuale collaborazione con quelle autorità locali, potrebbe venire un aiuto all’Italia sull’immigrazione mentre il governo centrale potrebbe al massimo dare appoggi formali. In questo scenario, anche nel 2016 la Cirenaica rimarrebbe in guerra con i due epicentri a Derna e Bengasi. E questo se tutto va bene. Perché invece la probabilità è che né il governo Renzi né i sauditi riescano a convincere Sisi a cambiare linea e che quindi Tobruk non accetti alcun accordo. Da qui al 2016, il caos nel paese potrebbe aumentare con crescenti fratture dentro le due grandi coalizioni (per esempio tra Haftar e i generali che combattono a Bengasi o tra Tripoli e Misurata) e soprattutto con un drammatico aumento della presenza dello Stato islamico di cui già si vedono i prodromi negli ultimi giorni: alcune tribù che capitolano; le milizie di Misurata che si ritirano senza combattere a Sirte; le voci di accordo tra guardie petrolifere e califfato nella zona costiera; la crescente infiltrazione di Tripoli. Inutile dilungarsi sugli effetti che si avrebbero sui flussi migratori, con il dilagare dell’economia di guerra e dei traffici illeciti.
Mattia Toaldo analista all’European Council on Foreign Relations
Una piccola “Libia Felix”
La Libia, nel 2016, non sarà più la Libia: previsione facile perché è la proiezione di quel che non è più già oggi. Sarà peggio. Molto. L’inizio del Ramadan consacra il fallimento dell’inetto Bernardino León, mediatore dell’Onu, che ha pasticciato soluzioni cervellotiche e che ha una sola giustificazione: ha trattato senza potere usare la forza. Non la forza militare, ma quella economica. Se l’Onu avesse congelato in un forziere internazionale non solo i beni del Fondo sovrano libico, ma anche i proventi dei contratti petroliferi e li avesse erogati ai due “governi” sub conditione, avremmo assistito a una trattativa seria. Ma l’Onu è l’Onu. Tra un anno, quindi, lo scenario sarà questo: vi sarà una piccola “Libia Felix”, assediata, cui il governo Renzi lavora da mesi (in previsione del fallimento Onu), governata da una specie di Loya Jirga, fondata sulla storica legittimità sovrana delle tribù libiche, di cui fanno già parte esponenti saggi e influenti di Tobruk come di Tripoli. Il battesimo pubblico si avrà di qui a qualche settimana, col silenzio-assenso dell’Egitto (ma non della Turchia). La forza di questa istituzione è presto detta: l’Eni. Le milizie dell’una e dell’altra parte, che lavorano con gli emissari del governo Renzi, garantiranno al massimo la sicurezza degli impianti petroliferi. In cambio avranno finanziamenti indispensabili a garantire un qualche esercizio effettivo della sovranità sulle zone da loro controllate. Quali? A oggi non si sa. E’ probabile che assisteremo a una nuova battaglia di Tripoli, a una per Bengasi e a molte altre. Lo Stato islamico si espanderà sia in Cirenaica sia in Tripolitania e anche nel Fezzan, dove si combattono i Tuareg (interessati alla proposta italiana) e i Tebu (in cerca del miglior offerente). Un caos, ma in qualche modo controllato. Si spera. La logica italiana, ormai e giustamente, è quella della riduzione del danno. Come per i malati di cancro.
Carlo Panella, editorialista e saggista
Chi vuole davvero la pace?
Lo smembramento della Libia è sempre stata un’ipotesi presa in considerazione anche se non esplicitamente. Sotto l’Impero romano la Libia era governata in due parti separate, Cirenaica e Tripolitania: fu l’Italia a unirle, anche se sotto l’impero italiano c’erano due governatori, due prefetti. L’ipotesi smembramento è realistica, l’unificazione fu forzata, nelle due parti del paese vigono tradizioni diverse: in Cirenaica esisteva una struttura politico-religiosa, che già per certi aspetti aveva creato qualcosa che poteva assomigliare seppure alla lontana a uno stato, la religione aveva creato delle infrastrutture. In Tripolitania no: esisteva la piccola borghesia mercantile di Tripoli, seppure molto meno importante di quella che si trovava nelle città portuali del Nordafrica. Poi c’erano le tribù. Vogliamo davvero tenere la Libia unita a tutti i costi? Credo che la separazione possa essere un’ipotesi. Un’ipotesi estrema, che però va presa in considerazione. I negoziati di pace di questi mesi sono fatti con le migliori delle intenzioni, l’impegno di Bernardino León c’è stato. Piuttosto vorrei sapere chi è contrario alla pace. E’ chiaro che ci sono conflitti di potere, ma sarebbe più facile se non ci fosse dall’esterno chi cerca di far prevalere una fazione sull’altra. Per questo finché non c’è pace non si può fare un intervento di peacekeeping. Nemmeno una forza di interposizione è consigliabile, bisogna evitare di combattere contro più enti. Inoltre, dopo il disastro del 2011, c’è il timore di ripetere lo stesso errore. Chi ha un interesse così forte e così determinante all’intervento in Libia? Paradossalmente il solo paese che avrebbe interesse a un intervento militare è l’Italia. L’Eni lavora bene ed è riuscita a crearsi una nicchia dove operare in pace, ma gioverebbe all’Italia una pacificazione. La ricaduta positiva sarebbe il controllo dell’immigrazione. Tuttavia un paese non interviene con i soldati se non sa che cosa vuole, se non sa come entrare nel paese e soprattutto come uscirne. Un’operazione in Libia non si può trasformare in una missione senza scadenza. La chiarezza degli obiettivi è un prerequisito fondamentale anche nel contrasto allo Stato islamico, che come tutte le entità militari terrestri ha le sue vulnerabilità. Ma se lo si combatte in condizioni in cui tutti coloro che sono pregiudizialmente ostili allo Stato islamico litigano fra di loro, l’offensiva diventa necessariamente carente, zoppicante.
Sergio Romano ex ambasciatore, storico ed editorialista del Corriere della Sera (testo raccolto in redazione)
[**Video_box_2**]L’instabilità è certa
La situazione potrebbe evolvere in due scenari, ma in ogni caso è comunque certo che la Libia del prossimo futuro rimarrà altamente instabile. Il primo: se nelle prossime settimane si riuscisse a concretizzare un accordo sotto la faticosa mediazione dell’inviato dell’Onu León, il maggior vantaggio che ne deriverebbe non sarebbe una rapida e maggior stabilità del paese (che rimarrebbe comunque in preda alla volontà delle milizie sul campo), ma la creazione di un governo di unità che consentirebbe alla comunità internazionale di avere un interlocutore unico maggiormente “legittimo”. Ciò permetterebbe di chiedere collaborazione al governo libico nel campo della sicurezza e del controllo dell’immigrazione o di stipulare accordi con esso. Sotto pressione internazionale il governo libico, in ogni caso molto fragile, potrebbe “formalmente” dichiarare guerra allo Stato islamico ed essere aiutato dall’esterno, magari da quella stessa coalizione internazionale che già cerca di fronteggiare il Califfato in Siria e Iraq. Si creerebbe un discrimine politico – forse un po’ manicheo – tra chi appoggia la lotta e chi non lo fa, che servirebbe però a riformulare e semplificare il quadro politico e militare del paese. Lo Stato islamico in Libia è una minaccia consistente che trae beneficio dall’anarchia e che trova sostegni in aree del paese che si sentono ostracizzate nella sistemazione della nuova Libia. Ne è un esempio l’adesione allo Stato islamico di miliziani di Sirte, città natale di Gheddafi, e per questo piuttosto avversata dai rivoluzionari di Tripoli. Tuttavia non sembrano esserci le premesse settarie che ne hanno permesso l’ascesa in Siria e Iraq e il Califfato locale è contrastato non solamente dalle forze di Haftar ma anche dai misuratini e più recentemente si sono addirittura aperte faide con altri gruppi jihadisti a Derna che percepiscono il Califfato come un elemento esogeno. Questo primo scenario vede quindi una Libia molto fragile ma ancora unitaria e con qualche speranza di stabilizzarsi sul lungo periodo. Il secondo, forse più probabile, parte dal presupposto del fallimento della mediazione. Il paese in tal caso sarebbe destinato ad affrontare non solamente una crisi politica e di sicurezza ma anche a trascinarsi verso una crisi economico-fiscale poiché impossibilitato dall’esportare le risorse energetiche e ricavarne la rendita. Da mesi le vendite di petrolio sono circa un terzo di quelle standard, mentre la Banca centrale continua a pagare le due amministrazioni e le milizie ad esse affiliate. Il World Food Program ha consegnato in questi giorni la prima tranche di aiuti alimentari nell’est del paese, dove si contano già migliaia di famiglie di rifugiati a causa del conflitto. Il Wfp riferisce che sta predisponendo un “piano per sostenere un totale di 243 mila sfollati interni in Libia nel corso dei prossimi sei mesi”. Il rischio molto concreto è che anche i libici comincino a essere costretti a emigrare, probabilmente verso Egitto e Tunisia (qui vi sono già diverse centinaia di migliaia di espatriati). Questa situazione sarebbe purtroppo la più favorevole per un radicamento criminale delle milizie che otterrebbero sostentamento unicamente dal controllo territoriale delle attività illecite o in un confronto aperto per il controllo dei pozzi di greggio.
Arturo Varvelli ricercatore presso l’Ispi e capo del Programma sul terrorismo
Ci vuole la riforma dell’islam
Sono stati gli italiani a mettere insieme un posto chiamato Libia, unificando la Cirenaica con la Tripolitania. Poiché la Cirenaica era nella parte greca dell’Impero romano, mentre la Tripolitania nella parte latina, duemila anni non sono stati sufficienti per mettere insieme una tale differenza. Il tentativo di saldatura non ha funzionato, nemmeno negli anni di Gheddafi la fusione è stata fatta: durante il regime la Cirenaica è rimasta marginale. Non si tratta di mettere insieme un governo, si tratta di mettere insieme uno stato. Nel passato era solo la dittatura che teneva insieme le due parti. La Libia è un’entità artificiale, per unirla ci vuole la forza o un livello di consenso per cui i libici non sono pronti in questo secolo. Questo non significa che ci sarà uno smembramento del paese: ci sarà una continuità dei differenti blocchi di potere. Fare come dice la comunità internazionale adesso – chiedere alle fazioni in campo di unificarsi come se il problema fosse solo un governo separato – non è possibile: non c’è uno stato. Le alternative sono solo due: o riportare Balbo in Libia oppure lasciare che i combattimenti continuino fino a che non emerge un uomo forte che massacra tutti gli altri. Non ci sono le basi culturali per uno stato chiamato Libia. Questa è un’ottima occasione per accertare il fatto che oggi ci sono per lo meno tre paesi che hanno una dimostrata incapacità di generare uno stato che funzioni a un livello adeguato per gli standard della comunità internazionale: Haiti, Somalia e Libia. E’ inutile stare ad aspettare che i libici possano sostenere un governo che funziona. E’ una falsa speranza. La comunità internazionale deve prendere in considerazione la possibilità di un mandato per formare una colonia internazionale. Devono venire volontari, imporre il controllo con la forza, disarmare chi resiste e governare. Altrimenti bisogna aspettare trent’anni fino a che non emerge un dittatore. Non esiste l’opzione in cui i libici diventano democratici e uniti. Nel futuro della Libia c’è solo l’anarchia, e per evitarla la comunità internazionale deve contemplare non una missioncella di soldatini con gli elmetti blu, ma un’occupazione. Anche lo Stato islamico non è contenibile senza azioni risolute. Questa settimana hanno arrestato a New York un giovanotto che voleva mettere una bomba, negli scorsi giorni ci sono stati altri arresti. E quando leggo che i genitori dell’arrestato dicono: “E’ un bravo ragazzo, andava sempre in moschea”, io penso: appunto, andava sempre in moschea. Il fenomeno dello Stato islamico è semplicemente la versione spinta del fenomeno islamico, ci pone di fronte al problema dell’islam non riformato. In Libia c’è gente che va in giro con le bandiere nere e i copricapi neri in testa. Questa gente si è autoarruolata e autoaddestrata e autosottomessa al califfo. Come si può lottare contro un simile fenomeno di affiliazione? Fino a che non c’è una riforma dell’islam, troverai persone che si identificano con lo Stato islamico.
Edward Luttwak esperto di politica internazionale ed ex consulente del governo americano
(a cura di Eugenio Cau)