A Pechino il crollo delle Borse è una questione di sicurezza nazionale
Roma. Durante le pause tra un tour organizzato e l’altro, è facile vedere i turisti cinesi in Europa e in America con il naso attaccato a smartphone grandi come padelle che controllano l’andamento dei mercati di Shanghai e Shenzhen. Spesso sono pensionati o giovani coppie, caduti nell’euforia finanziaria dell’ultimo anno, quando la Borsa cinese è cresciuta mediamente del 150 per cento, con alcune compagnie che hanno moltiplicato il loro valore di mercato del 350 per cento. E’ così che i cinesi sono riusciti a pagarsi la vacanza a Venezia, o a permettere l’ingresso all’università ai loro nipoti. Pur di giocare in Borsa, e di approfittare del mercato che correva a perdifiato, i piccoli risparmiatori hanno chiesto prestiti, si sono indebitati, hanno venduto il loro patrimonio: il rapporto prezzo/utili era di circa 140, dieci volte più del normale, una cosa così non si era vista nemmeno nel 2000 durante l’euforia americana per la New Economy. Incoraggiati dal governo di Pechino, dai mille editoriali sui giornali di Partito che negli scorsi mesi hanno promesso prosperità finanziaria diffusa e durevole e dalle dichiarazioni sicure dei funzionari pubblici, nell’ultimo anno sono stati i piccoli investitori a dare slancio all’enorme crescita dei mercati cinesi, con le loro pensioni e i risparmi di una vita. Al contrario dei mercati occidentali, dove le grandi istituzioni e i fondi di investimento operano la gran parte degli acquisti, in Cina la maggioranza delle azioni è in mano a commercianti, famiglie, pensionati colti dalla febbre finanziaria. Ma ora che la bolla è lì lì per scoppiare, i piccoli investitori cinesi rischiano di perdere tutto, e il governo teme le conseguenze.
Dalla metà di giugno, quando è iniziato il crollo, le Borse di Shanghai e Shenzhen sono andate sotto il 30 per cento e hanno bruciato più di tremila e duecento miliardi di dollari. E’ una crisi che, almeno in termini numerici, fa impallidire quella greca, e alla quale il governo, nonostante il dispiegamento di mezzi e di credibilità politica, non sta riuscendo a porre freno. Pechino ha tagliato i tassi d’interesse, ha mosso i potenti fondi pensione, incoraggiato un maxiprestito della Banca centrale cinese per favorire i prestiti, convinto alcuni grandi fondi a comprare azioni, infine ha sospeso le contrattazioni di un quarto delle aziende quotate, ma anche ieri la Borsa di Shanghai ha chiuso in calo (-1,29 per cento). Anche il presidente Xi Jinping, l’uomo più potente della Cina dai tempi di Mao Zedong, che ha spazzato via i suoi avversari interni e schiacciato la dissidenza, sta imparando che non può fare nulla contro i mercati, e più il governo mostra segnali di nervosismo più gli investitori si impauriscono e vendono i titoli in loro possesso.
[**Video_box_2**]Il possibile scoppio di una bolla finanziaria (che è grave, ma non è il “momento Lehman Brothers” della Cina: è in calo del 30 per cento dopo una crescita del 150) arriva nel periodo peggiore per l’economia cinese, che non cresceva così lentamente da dieci anni. E ora che moltissimi piccoli investitori sono a rischio, Pechino teme gravi ripercussioni sociali, che potrebbero mettere a rischio la stabilità del sistema non solo finanziario, ma anche politico. Incoraggiando i cittadini a giocare in Borsa, il governo aveva implicitamente garantito la sicurezza dei loro investimenti. Ma i guadagni sono sfumati, nessuna manovra sembra avere effetto, e ulteriori cali rischiano di provocare la reazione rabbiosa degli investitori, che vedono tradito il patto fondamentale tra il Partito comunista e il popolo: libertà in cambio di benessere. Come ha notato Andrew Browne sul Wall Street Journal, la crisi finanziaria si sta trasformando in un problema di tenuta interna, e probabilmente non è un caso se nella nuova legge sulla sicurezza nazionale approvata dall’Assemblea nazionale del popolo la scorsa settimana la finanza e gli investimenti rientrano nell’ambito vago in cui possono operare i dispositivi di sicurezza. Pechino teme la delusione finanziaria del suo popolo più dei dissidenti, e prepara misure repressive.