Obama è ingenuo o troppo furbo?
C’è qualcosa di poco chiaro nell’atteggiamento invariabilmente ispirato alla transigenza che caratterizza l’amministrazione Obama nelle sue fasi conclusive. Sulla Grecia si sono sentite prediche sull’esigenza, per non meglio identificate ragioni geopolitiche, di accettare i ricatti di Syriza, senza alcuna preoccupazione per i costi di questa tolleranza che avrebbero dovuto sopportare i partner europei. Non è certo merito dell’America se all’accordo pare si possa arrivare in base a un solido programma di modernizzazione, del quale Barack Obama non si è mai mostrato un fautore. Su un altro dossier, quello della propensione del regime iraniano a dotarsi di missili balistici e di ordigni atomici, l’America pare ormai vicina a concludere un’intesa che renderà ancora più insicura la situazione dell’alleato israeliano. Persino nella normalizzazione delle relazioni con Cuba si è completamente dimenticato di ottenere una qualsiasi tutela dei diritti del dissenso interno, consentendo così a Raul Castro di proclamarsi paradossalmente campione dei diritti umani.
L’intransigenza americana pare ormai riservata solo alla Russia, paese che, a differenza dell’Iran e di Cuba, ha sicuramente compiuto passi rilevanti in direzione dell’adozione di un sistema di governo democratico, almeno se confrontato con la dittatura sovietica precedente. Sarebbe da ingenui considerare che la politica internazionale di una grande potenza debba essere strettamente vincolata a questioni di principio, anche se la alluvionale retorica obamiana avrebbe fatto pensare a una qualche aderenza a queste impostazioni “idealistiche”. Anche trascurando i problemi di coerenza, resta difficile da comprendere un atteggiamento che finisce col favorire il consolidamento di dittature che per varie ragioni sembravano avviate a una fase agonica oppure a dare appoggio a politiche economiche disinvoltamente irresponsabili.
[**Video_box_2**]Che cosa si aspetta di ottenere Obama? Il premio Nobel per la pace lo ha già ricevuto, sebbene troppo precocemente, e difficilmente può ottenere un posto di rilievo nella storia comportandosi come Arthur Neville Chamberlain a Monaco (anche se il paragone, per ovvie ragioni, non potrà mai reggere). In un mondo in cui si staglia il pericolo del terrorismo islamico, che tende a diventare il problema principale del prossimo decennio, l’imperativo dovrebbe essere quello di unire in primo luogo le forze delle democrazie, di difendere il popolo israeliano sempre più direttamente minacciato, di rinforzare la leadership che spetta di fatto, per ragioni economiche e militari oltre che storiche, all’America. Questi obiettivi non sono l’ossatura della strategia obamiana, che appare invece ondivaga – quando non controproducente. Questo renderà ancora più arduo il compito del suo successore.
Dalle piazze ai palazzi