Il silenzio dei giusti
Oltre che di un esercito forte, lo stato di Israele, questa enclave occidentale conficcata nella umma islamica, novecento chilometri di confine terrestri senza baluardi, ha sempre avuto bisogno della solidarietà internazionale. Non può esistere come stato-guarnigione senza l’affetto della società civile occidentale che ogni tanto si mobilita per esso. In Italia è successo, grazie al Foglio, per ben tre volte negli ultimi anni. E’ successo nel 2002, quando venne indetto un Israel Day al ghetto di Roma durante le stragi di kamikaze nei ristoranti e negli alberghi israeliani. E’ successo nel 2005, quando Mahmoud Ahmadinejad minacciò di cancellare Israele dalla faccia della terra e chiamammo a raccolta molta gente di fronte all’ambasciata iraniana a Roma. E’ successo nel 2014, durante l’estate dei missili lanciati da Hamas sulle città ebraiche, con la manifestazione in Lungotevere Sanzio, a favore di ebrei e cristiani minacciati dall’islamismo in armi. Ma più in generale, c’è stata sempre una generosa risposta a favore di Israele da quasi tutte le parti culturali e politiche della scena pubblica italiana. Nel 1967 Donna De Gasperi raccoglieva sangue e soldi da inviare a Israele sotto assedio. Non stavolta. Non adesso che l’Iran ha ottenuto un percorso nucleare e mentre i suoi ayatollah (vedi Rafsanjani sul Foglio) continuano a minacciare di annichilire Israele.
Non parliamo soltanto di riempire le piazze, ma di vedere e sentire sui giornali e in televisione voci a favore di Israele, delle sue ansie e delle sue ragioni. Si tratta di sentire, qua e là, oltre alla facile commozione obamiana, anche che Israele ha diritto di esistere e che non è uno scherzo da accogliere con indulgenza o indifferenza la minaccia iraniana e islamica di espungerlo dalla famiglia delle nazioni. E’ questo il bello della testimonianza a favore del diritto di Israele a esistere: che non può essere connotata da strumentalità o spirito di partigianeria e di vantaggio politico particolare. Piccolo come territorio, grande come popolo, dove gli ebrei sono approdati con un carico pesante di tragedia e con una luce umana di speranza, Israele è quella che in America si chiama “a non partisan issue”. E’ quella che Carlo Casalegno, in uno dei suoi articoli che fecero tanto innervosire i sinistri benpensanti, definiva una “battaglia civile”. Invece oggi sembra che per tanti giornalisti, uomini di lettere e uomini politici, commentatori dei giornali e della televisione, sia molto più comodo restarsene in perfetta sintonia con le emozioni e le ragioni più rassicuranti dell’opinione pubblica internazionale, che gongola di fronte a questo deal. Inneggiare alla grande glasnost con la Rivoluzione islamica e dimenticarsi di Israele, tornato nuovamente Davide.
I conservatori inglesi