Perché questo deal piace troppo
E’ un accordo, quello tra la comunità internazionale e l’Iran, che ancora non è dato capire se funzionerà davvero nel contenere le ambizioni atomiche e militari di Teheran. Tuttavia, è già storico di per sé, per le modalità con le quali è stato raggiunto e per le conseguenze politiche più generali che avrà. Quasi alla lettera, è questa la sintesi dell’editoriale di commento dedicato al deal dal Financial Times, quotidiano globalizzante con gli headquarters a Londra. Un accordo che è già “storico” prim’ancora di essere testato per i suoi effetti pratici: è lo stesso leitmotiv dei commenti di politici e analisti europei e italiani. E non ci deve essere soddisfazione maggiore per un negoziatore. Come non c’è fenomeno più intrigante da indagare, per una volta concentrandosi sul deal percepito più che sul deal effettivo.
Soprattutto se il giudizio del Financial Times è tutt’altro che solitario, anzi riecheggia con maggior forza nei commenti di politici e analisti in Europa e Italia.
Questo accordo tra Stati Uniti e Iran piace troppo. E di ragioni, dietro tale fascinazione dichiaratamente aprioristica, se ne possono ipotizzare almeno quattro.
La prima è l’esaltazione della legalità internazionale che omnia vincit. La dimostrazione che è più forte Venere di Marte, caro Robert Kagan, sembra dire il Commentatore Collettivo. Il mondo kantiano fondato sul diritto istituzionalizzato, quello da cui provengono gli europei, si prende così la rivincita sul mondo da cui si diceva arrivassero gli americani, quello che non esclude rigurgiti hobbesiani. L’11 settembre 2001 e la reazione che vi fu subito dopo, più che una smentita della piacevolezza della vita su Venere, sembrano un lontano incidente della storia. Di fronte a una convinzione tanto radicata, impallidisce l’approccio idealista e muscolare delle precedenti Amministrazioni americane guidate da George W. Bush, quello della promozione della democrazia anche lancia in resta; gli americani con Obama sono sbarcati su Venere, e si trovano benissimo, benvenuti. “Per la prima volta la diplomazia, multilaterale e condivisa, ha la meglio sulle armi: in medio oriente non accade mai. Questo è il significato immediato ma anche profondo dell’accordo sul nucleare iraniano”, ha commentato il Sole 24 Ore. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dice che l’accordo è “un’inversione di tendenza” rispetto a un’area “in cui l’ultima parola è spesso lasciata alle armi”. Se questo è il metro di giudizio – il feticcio della diplomazia e della legalità internazionale che domina sui contenuti stessi dell’intesa – allora non può che affievolirsi fino a essere inascoltato l’altolà d’Israele, l’unica democrazia della suddetta area mediorientale. Se perfino la Rivoluzione islamica costituzionalizzata nel 1979 da Khomeini china il capo ai dettami del diritto internazionale, sarà dunque meglio riporre sugli scaffali quel Robert Kagan d’annata. Per comprendere il giubilo di chi non attende altro che vedere all’opera quintetti allargati, Nazioni Unite e ispettori dell’Aiea, è più utile una riflessione del padre Donald Kagan, il classicista: “Siamo immersi in una cultura che rende difficile per noi agire razionalmente quando essere duri è la cosa razionale da fare. Possiamo farlo quando siamo spaventati a morte e non ci sono alternative. Quando è il momento di chiudere i conti, molto spesso sgattaioliamo via”.
[**Video_box_2**]Sgattaioliamo, a chi? La seconda ragione della fascinazione, infatti, è quell’obamismo mai sopito che serpeggia specialmente in Italia e in tutta l’Europa continentale. Obamismo appena scalfito dalle delusioni bellicistiche recapitate via drone, o dalle lentezze burocratiche che hanno frenato la chiusura del carcere di Guantanamo, eccetera. “Di colpo questo presidente così contestato in patria può diventare l’uomo che ha impresso cambiamenti eccezionali nell’assetto geopolitico del pianeta”, ha scritto per esempio Repubblica. La riapertura delle relazioni con la Cuba (ex) comunista o con l’Iran (che ora appare meno “Repubblica islamica”): ecco l’eredità perfetta, il vissero felici e contenti, che già in tanti pregustavano per quest’Amministrazione democratica. E’ attraverso la legacy obamiana che si arriva al terzo merito attribuito implicitamente all’accordo. L’engagement, come lo chiama il presidente americano, funziona sia quando si tratta con dei rottami del totalitarismo comunista sia quando si negozia con la culla dell’islam politico. La strage di Charlie Hebdo, nel cuore di Parigi, aveva spinto addirittura il premier socialista francese, Manuel Valls, a resuscitare con cinque lustri di ritardo lo “scontro di civiltà” teorizzato da Huntington. Ma se nemmeno l’islam politico che vuole buttare a mare il piccolo Satana (Israele) e distruggere il grande Satana (l’America) è più uno scandalo inintegrabile per i leader del pianeta, allora l’appeasement con le sue propaggini fondamentaliste pare sdoganato.
Infine, il deal iraniano, siglato mentre la crisi greca nell’Eurozona toccava le vette più drammatiche, ha consentito in queste ore a vari leader del continente di fare appello al senso comune: non fateci passare per affamatori di popoli in nome dell’austerity; l’Unione europea è prima di tutto la facilitatrice di un accordo storico, la “potenza gentile” che tutti sognavamo. Peccato che senso comune e buon senso non sempre coincidano.
I conservatori inglesi