Arabia infelix
Adesso che le bandiere americane a Teheran vengono trattate appena un po’ meglio del solito, gli odiati sauditi hanno scalato ancora qualche posizione nella classifica del disprezzo iraniano. Ed è ovvio che Riad pretenda spiegazioni e protezione da Barack Obama. Ieri il presidente americano ha incontrato il ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, il quale gli ha trasmesso tutte le irritate preoccupazioni della Casa reale a proposito della cedevolezza di Washington e della comunità internazionale. Quello che spaventa Riad non è soltanto l’accesso di Teheran all’atomica dopo la scadenza dei quindici anni, ma la crescita della sua influenza regionale quando la rimozione delle sanzioni internazionali ridarà vigore all’economia iraniana. Il fiume di dollari in entrata irrorerà inevitabilmente tutto il fronte sciita contro il quale Riad combatte in vari scenari.
C’è la guerra in Yemen contro gli Houthi sostenuti dall’Iran, fronte dove i sauditi hanno stabilito un’alleanza con al Qaida e “liberato” la città di Aden dai ribelli. Poi c’è la guerra in Siria, dove i sauditi parteggiano per la caduta di Assad. Obama sapeva bene che tipo di malumori covava da tempo fra gli alleati arabi e mesi fa ha invitato i leader del Golfo a un summit a Camp David. E’ finita con i re che mandavano i ministri e ministri che disertavano, un consesso di emissari minori che la diceva lunga sul clima di scetticismo. A complicare la relazione storica c’è anche la corsa degli Stati Uniti verso l’indipendenza energetica, progetto a lungo termine che però ha già gettato l’Opec a trazione saudita nell’irrilevanza. Non un momento d’oro per scendere a patti con il comune nemico.
I conservatori inglesi