Il caso Pollard e la distanza con Israele
Dopo trent’anni passati in prigione, a Jonathan Pollard sarà concessa la liberazione anticipata entro novembre. Il cittadino statunitense fu arrestato nel 1985, quando era arruolato nella marina del suo paese, perché accusato di aver passato centinaia di documenti sensibili all’intelligence israeliana.
Nel 1987 fu condannato all’ergastolo. Di fronte all’evidenza di Washington spiata così sfacciatamente dal suo storico alleato in medio oriente, ne nacque innanzitutto un caso diplomatico. Oggi però sarebbe superficiale spiegare con sole ragioni diplomatiche la liberazione anticipata di Pollard. Vero, è stato appena siglato l’accordo di appeasement nucleare con l’Iran, comprensibilmente inviso a Israele. Vero, l’attuale primo ministro israeliano è quello che simbolicamente ha voluto premiare Pollard dandogli la cittadinanza israeliana, visitandolo in carcere e perorando la sua liberazione in tante occasioni ufficiali. Ma la tesi dello zuccherino dato in pasto a un paese che teme la nuclearizzazione del vicino è solo una parte della storia. Piuttosto proprio l’intesa con Teheran, salutata dall’Amministrazione e dai benpensanti del pianeta come un “successo storico”, prim’ancora di vederne gli effetti concreti, per il solo fatto di essere stata raggiunta con mezzi diplomatici, di aver soddisfatto tic pacifisti e irenisti nel rapporto con un regime islamico rivoluzionario, conferma l’incomunicabilità, in questa fase storica, tra Stati Uniti e Israele. E’ la replica di quanto accaduto all’inizio degli anni 80, con Israele che soltanto grazie agli “occhi” di Pollard poté ottenere le informazioni utili a colpire l’Olp a Tunisi e a non farsi cogliere impreparato dai missili di Saddam. Il caso Pollard è storia, epica per qualcuno. La distanza tra Washington e Gerusalemme invece è attualità, resa più perigliosa dagli errori di Obama.