Non solo bombe, contro i curdi Erdogan pensa a nuove elezioni
Roma. L’aviazione turca ha intensificato negli ultimi due giorni i bombardamenti sulle posizioni del gruppo curdo Pkk in Siria, e ieri l’esercito ha detto che sono stati uccisi dalle bombe 190 miliziani curdi, 300 sono i feriti. L’ingresso della Turchia nella guerra contro lo Stato islamico e contro il Pkk in Siria ha cambiato strategie e prospettive del conflitto, ma esiste anche un terzo fronte di cui gli analisti di geopolitica si occupano meno, quello interno, dove il presidente Recep Tayyip Erdogan potrebbe usare l’attacco militare e politico contro i curdi e la rottura delle trattative di pace con il Pkk per consolidare il proprio potere nel paese – ed eventualmente forzare nuove elezioni per ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento.
Erdogan è entrato in guerra in un momento in cui la Turchia è senza governo – ad Ankara c’è come reggente il suo fedele successore, il premier uscente Ahmet Davutoglu – e in cui ancora sono in corso le trattative tra i partiti dopo che alle elezioni del 7 giugno nessuno ha ottenuto una maggioranza sufficiente per formare un esecutivo. In campagna elettorale Erdogan puntava a ottenere la maggioranza assoluta per far approvare le riforme costituzionali che avrebbero consolidato il suo potere sulla Turchia, ma il successo del partito curdo moderato Hdp, guidato dal giovane Selahattin Demirtas, gli ha guastato i piani. Per la prima volta un partito curdo ha superato l’alta soglia di sbarramento necessaria per entrare in Parlamento (il 10 per cento; l’Hdp ha ottenuto il 13 per cento), e questo successo ha privato Erdogan non solo della maggioranza assoluta, ma anche del governo. Il suo partito, l’Akp, è sempre il più votato, e in qualità di presidente, il 9 luglio Erdogan ha dato a Davutoglu un incarico esplorativo per formare un governo di coalizione con i partiti di opposizione. Per un po’ gli analisti hanno creduto che Erdogan si sarebbe accontentato di un governo in condivisione, in cui difficilmente le riforme che gli stanno a cuore sarebbero state approvate. Ma poi la guerra ha cambiato tutto.
Insieme ai bombardamenti in Siria e ai circa mille arresti di islamisti e militanti del Pkk in patria, Erdogan sta alternando la retorica militaresca agli attacchi durissimi ai curdi dell’Hdp, con l’intento di delegittimare il partito di Demirtas. Ieri il premier ad interim Davutoglu ha definito l’Hdp “l’operazione Gladio dietro ai terroristi”, e ha accusato il partito curdo dell’omicidio (rivendicato dal Pkk) di due poliziotti turchi uccisi la settimana scorsa al confine con la Siria: i terroristi dell’Hdp e del Pkk pagheranno per il sangue versato, ha detto (ieri altri tre militari sono stati uccisi in un’area di confine). Tre giorni fa Erdogan ha chiesto di togliere l’immunità parlamentare ai deputati curdi dell’Hdp, lasciando sottintendere un loro legame con il terrorismo, come a dire: i mandati di cattura sono già pronti. Ancora ieri il vicepremier Akdogan ha detto che a danneggiare il processo di pace con i curdi è stato proprio l’eccessivo successo alle elezioni dell’Hdp.
[**Video_box_2**]Nel frattempo i turchi sembrano approvare la decisione di bombardare in Siria e le quotazioni dell’Akp salgono nei sondaggi, mentre le trattative con i vari partiti per la formazione di un governo stagnano, soprattutto a causa del comportamento equivoco degli emissari di Davutoglu. I partiti hanno poco più di venti giorni per formare un governo. Se non ci riescono, dice la legge turca, il presidente ha il diritto di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. Secondo molti osservatori, tra cui Yaroslav Trofimov sul Wall Street Journal di ieri, è esattamente a questo che Erdogan sta mirando. Sarebbe una delle conseguenze desiderate, anche se non l’obiettivo primario, dell’entrata in guerra della Turchia: Erdogan sta facendo capire ai suoi elettori che una Turchia in guerra ha bisogno di un governo forte, e che i curdi moderati di Demirtas non soltanto sono un intralcio alla formazione di ampie maggioranze, ma sono la struttura di supporto interno dei terroristi combattuti all’estero.