La guerra di Chuck Schumer
Non posso obbligare i miei colleghi a votare dalla mia parte”, dice Chuck Schumer, il prossimo leader democratico del Senato che ha schiaffeggiato Barack Obama ripudiando l’accordo nucleare con l’Iran. Non potrà obbligare, ma non si risparmierà certo nel tentativo di persuadere. La macchina del potente senatore di New York per convincere altri democratici a non votare l’accordo è già in moto. Uno degli argomenti più forti per quello che definisce “un voto di coscienza” consiste nel suggerire implicitamente che chiunque darà il suo voto favorevole è un antisemita e un nemico dello stato d’Israele. Tabloid come il New York Post cavalcano questa argomentazione in modo esplicito. Schumer vorrebbe che l’amministrazione tornasse al tavolo delle trattative per rinegoziare gli aspetti più fragili del patto, desiderio che gli è valso pure la stangata via Twitter dell’ex consigliere obamiano David Plouffe: “Ci mancherà Harry Reid”, il leader del senato uscente.
Una spicciola logica di calcolo dice che il migliore risultato politico per Schumer è che l’accordo venga infine approvato dal Congresso ma senza il suo voto; in questo momento però non può mostrarsi tiepido o arrendevole nel propagare la sua posizione. Perciò contrasta colpo su colpo la macchina progressista che lo dipinge come un guerrafondaio e un traditore del partito. Lunedì si è trovato un folto gruppo di attivisti che protestavano fuori dal suo ufficio a Manhattan, mentre John Kerry continuava ad elencare ai giornalisti gli effetti nefasti di un repentino voltafaccia degli Stati Uniti dal deal. Ma lui continua a muovere le sue divisioni.
Dalle piazze ai palazzi