Altro che accordo
Roma. L’accordo nucleare con l’Iran non è ancora stato ratificato dal Congresso americano e nessuna sua clausola è entrata in vigore, ma già Teheran inizia a mostrare che tipo di rapporti ispireranno l’accordo. Mercoledì il ministero degli Esteri di Teheran ha chiesto agli Stati Uniti il rilascio di 19 cittadini iraniani detenuti per quelle che il regime descrive come accuse infondate di aver violato le sanzioni. La dichiarazione pubblica è notevole non solo perché fornisce nuove informazioni (finora non si sapeva quanti fossero gli iraniani detenuti in America, né quali fossero le loro accuse), ma soprattutto perché Teheran avanza la sua richiesta dopo aver ignorato per mesi i tentativi di Washington di liberare i tre cittadini americani di origini iraniane prigionieri del regime degli ayatollah per ragioni che, queste sì, appaiono squisitamente politiche.
Tra questi c’è Jason Rezaian, giornalista del Washington Post arrestato 13 mesi fa con l’accusa di spionaggio. Il suo processo si è concluso il 10 agosto e la condanna potrebbe ammontare a 20 anni di prigione. Il Washington Post, molte associazioni per i diritti umani e la stessa Amministrazione americana hanno sostenuto l’innocenza del giornalista. Il tentativo di liberare Rezaian e gli altri due americani di origini iraniane detenuti, il veterano dei marine Amir Hekmati e il pastore cristiano Saeed Abedini (c’è inoltre Robert Levinson, ex agente Fbi disperso in Iran fin dal 2007), è stato uno dei corollari della trattativa con l’Iran per tutta la durata dei negoziati, e il non aver ottenuto risultati è stato visto come un segno ulteriore di cedevolezza da parte dell’Amministrazione Obama. E’ anche un presagio negativo per la politica della mano tesa del presidente. Gli ayatollah già vogliono prendersi il braccio.