Miliardi e concorrenza dura: così la Cina vuole “disintermediare” Uber
Roma. Quando Uber ha fatto il suo ingresso trionfale sul mercato cinese, nel 2014, il fondatore e ceo Travis Kalanick forse non immaginava che a Pechino avessero appreso la lezione della disintermediazione bene quanto lui. La compagnia americana di automobili con app è entrata in Cina con grandi aspettative e finanziamenti ingenti: un miliardo di dollari per il 2015, e un nuovo round di finanziamento nei prossimi mesi da dedicare tutto all’espansione nel mercato cinese. Kalanick vanta già numeri notevoli, ancorché non verificati (un milione di corse al giorno, cifre vicine a quelle del mercato americano), ma la crescita della compagnia in Cina sta subendo dei colpi durissimi. Questa settimana Emil Michael, vicepresidente delegato al business, ha parlato con Bloomberg di “deterioramento dell’ambiente competitivo” in relazione alla cacciata di Uber da WeChat, l’immensamente popolare servizio di chat cinese, la cui influenza è maggiore di quella che Facebook ha in occidente.
L’esclusione di Uber da WeChat è iniziata a marzo, ma tra ricorsi e proteste si è concretizzata solo di recente, e questa settimana un alto dirigente ne ha parlato con i media per la prima volta. WeChat è importante per il mercato cinese non solo come vetrina pubblicitaria, ma soprattutto perché l’app fornisce in Cina servizi aggiuntivi fondamentali. Tra questi, anche la possibilità di prenotare i taxi di Didi Kuaidi, il principale rivale di Uber in Cina e forza dominante del mercato. Il punto sta tutto qui: WeChat è un prodotto del gigante di internet cinese Tencent che a sua volta è uno dei principali investitori di Didi Kuaidi. Eliminando Uber da WeChat, dunque, Tencent ha fatto piazza pulita della concorrenza, e poco importa se il metodo non è ortodosso, e se la compagnia ha accampato una scusa dietro l’altra per tenere fuori il rivale.
[**Video_box_2**]Uber dovrebbe conoscere bene queste pratiche non ortodosse, perché è il primo a utilizzarle nei mercati occidentali. In Cina, però, il grande disruptor rischia di trovarsi uberizzato. Anzitutto perché parte in svantaggio. Didi Kuaidi è un colosso che gestisce il 78 per cento del mercato del car sharing cinese e che conosce da tempo la cultura della disruption: la compagnia nasce da una fusione miliardaria avvenuta a febbraio dopo che le società originarie, Didi Dache e Kuaidi Dache, si erano fatte per anni una guerra durissima e piena di colpi bassi sui prezzi e sui servizi. La loro fusione ha fatto da comitato d’accoglienza per Uber, e ha dato ai critici asiatici della compagnia americana un’alternativa su cui investire. Perché l’altro problema, appunto, è che Uber non sembra molto gradito dal regime cinese. Sarah Lacy, giornalista da sempre critica con Uber, ha scritto sul sito Pando Daily: la Cina “non consentirà mai a Uber di vincere perché non può lasciare che una compagnia americana con legami con il dipartimento di stato controlli le sue principali arterie urbane”. E anche se i legami sono più che altro di pubbliche relazioni, in questo modo si spiega più nel dettaglio l’investimento recente di uno dei fondi sovrani cinesi in Didi Kuaidi, un endorsement evidente. Didi è finanziata anche da Alibaba e dalla giapponese Softbank, sponsor inoltre del concorrente americano Lyft e di altre compagnie simili in giro per l’Asia. Segno che in Cina esiste una coalizione anti Uber, ma non anti sharing economy, che ha ottenuto la benedizione dello stato. Un cattivo presagio per Kalanick.