Perché alla parata marziale di Xi Jinping gli alleati hanno le facce torve
Roma. La grandiosa parata dell’esercito cinese per commemorare la vittoria della Cina nella Seconda guerra mondiale (o meglio, secondo i dettami del governo: “Il settantesimo anniversario della vittoria del popolo cinese nella guerra anti giapponese e del mondo nella guerra anti fascista”) rischia di trasformarsi in una sfilata di alleati frustrati. Da ieri il centro di Pechino è diventato una città fantasma, le strade sono bloccate, le metropolitane ferme, i negozi chiusi e ai proprietari di piccioni è stato vietato di far volare i pennuti per due giorni. Sono arrivati anche tutti gli ospiti del presidente Xi Jinping, i capi di stato che dai palchi d’onore daranno una rappresentazione plastica dell’“imperialismo dello yuan”, in rappresentanza dei paesi che negli ultimi anni si sono agganciati alla crescita record e alla disponibilità finanziaria apparentemente illimitata della Repubblica popolare: dai petrostati sudamericani, primo fra tutti il Venezuela chavista, a gran parte dell’Africa, compreso il dittatore sudanese Omar Bashir, ricercato dalla Corte penale internazionale per genocidio, fino a molti paesi del sud-est asiatico e dell'Asia centrale. Ospite d’onore è il presidente russo Vladimir Putin, giunto a Pechino per sancire quell’alleanza russo-cinese iniziata l’anno scorso con la firma di accordi gasiferi plurimiliardari. Mancano tutti i leader occidentali, che diserteranno la parata (l’Italia manda il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni).
L’evento militare è per la leadership comunista l’occasione di ribadire il suo ruolo da grande potenza, appannato dal crollo delle Borse di Shanghai e Hong Kong e dalle notizie sul rallentamento dell’economia, ma proprio la crisi finanziaria sta mettendo a rischio, oltre che i risparmi dei cittadini cinesi, anche la tenuta di quell’imperialismo dello yuan che oggi sarà rappresentato a piazza Tiananmen. I migliori amici di Pechino sono anche i più danneggiati dalla crisi, quelli le cui economie, prima trainate dalla crescita cinese, oggi rischiano pesanti perdite a causa del suo rallentamento. Mentre l’occidente, sostengono gli analisti, sul breve periodo risente della crisi in maniera limitata nonostante le turbolenze dei mercati (ci sono alcune eccezioni, come la Germania, ma l’esposizione è generalmente ridotta), molte economie africane hanno nella Cina il loro principale partner commerciale, hanno fondato la loro crescita sulla voracità cinese di materie prime e sulla munificenza dei finanziatori orientali, pronti a scambiare barili per ponti e autostrade, e ora il calo della domanda e la ridotta disponibilità dei capitali creano enormi difficoltà.
Il commercio bilaterale tra Cina e Africa, colonna portante dell’economia del continente, è in “calo netto” dalla fine del 2014, scrive la Deutsche Welle. Inoltre il crollo del prezzo del petrolio, che ha tra le sua cause anche la scarsa domanda cinese, sta portando al collasso alleati come il Sudan e il Venezuela, che devono affrontare la recessione e al tempo stesso rispettare contratti petroliferi onerosi stipulati con Pechino in tempi più favorevoli. Anche Putin avrà rimostranze da presentare a Xi Jinping, visto che nel 2015 l’interscambio commerciale tra Cina e Russia è diminuito del 29 per cento, e che i nuovi contratti gasiferi, strategicamente fondamentali, sono bloccati a causa dei bassi prezzi e della domanda limitata.
[**Video_box_2**]Forse è anche perché l’espansionismo economico rischia di entrare in crisi che Xi Jinping si prepara ad annunciare, alla fine della parata, la più grande riforma dell’esercito della Cina moderna, per trasformare le forze armate da apparato pachidermico di stampo sovietico in una forza “capace di vincere le guerre”, ha detto un esperto militare al South China Morning Post.