Cristiani dello Stato islamico tra espropri e nuovi comandamenti
Roma. Qualche giorno fa il patriarcato caldeo di Baghdad ha presentato alle autorità irachene un rapporto in cui si evidenziano quattordici casi di espropriazioni abusive dei beni immobiliari appartenenti a famiglie cristiane della capitale, avvenuti negli ultimi mesi. Espropriazioni rese possibili dalla produzione di documenti falsi e coperture di funzionari corrotti. Nel dossier, di cui ha dato conto l’agenzia vaticana Fides, sono elencati anche i nomi dei cittadini cristiani sequestrati o vittime di estorsione. Era stato il primo ministro in persona, Haydar al Abadi, a istituire un comitato ad hoc incaricato di indagare e classificare i casi in questione. Proposta subito accolta con favore dal patriarca Raphaël Louis I Sako. “Almeno il 70 per cento delle case cristiane a Baghdad è stato illegalmente espropriato”, ha detto Mohammed al Rubai, membro del consiglio municipale cittadino. Stavolta non c’entrano le milizie jihadiste del Califfato, ma solo il caos che si è creato in tutto il paese dopo la progressiva estensione territoriale dello Stato islamico. La situazione è fluida, ed “è difficile anticipare quale sarà il futuro per i cristiani nel medio oriente”, si legge in un report della fondazione tedesca intitolata a Konrad Adenauer (Konrad Adenauer Stiftung), anche perché vi è il concreto rischio che paesi come “il Libano e la Giordania, dove i cristiani sono al sicuro, possano essere coinvolti in conflitti con gli stati vicini”. Qualche centinaio di chilometri più a ovest, in Siria, le autocostitute autorità dello Stato islamico hanno già proceduto a far firmare ai cristiani il particolare contratto che garantisce loro la sicurezza in cambio dell’osservanza obbligatoria di alcune norme, ribatezzate subito “gli undici comandamenti”. Basta poco per salvarsi, hanno spiegato i miliziani ai cristiani di al Qaryatayn, centro di quarantamila abitanti nel sudest del governatorato di Homs, conquistato con la forza il mese scorso.
L’Osservatorio siriano per i diritti umani ha ricordato quali sono le alternative proposte nel bouquet del Califfato: convertarsi all’islam, firmare un contratto, pagare la jizya (la tassa imposta ai non musulmani), andarsene. Chi si ribella, ci rimette la testa. Il primo divieto è quello di costruire nuove chiese o monasteri, mentre al secondo posto≠è previsto il divieto di esibire simboli religiosi cristiani davanti ai musulmani. Di seguito, è vietato complottare contro lo Stato islamico, possedere armi e commerciare carne di maiale e vino. E’ obbligatorio vestire “con modestia”, non suonare le campane né usare il microfono durante le funzioni. Con un gesto di misericordiosa generosità, i poveri potranno pagare la tassa di 1 dinaro in due rate (è di 4 per i ricchi e di 2 per il cosiddetto ceto medio). Chi accetta, deve firmare. Chi violerà i termini contrattuali, “sarà trattato alla stregua di un combattente nemico”.
[**Video_box_2**]Nel frattempo, nel vicino monastero di Mar Elian, in gran parte raso al suolo dai bulldozer lo scorso agosto, è stata profanata la tomba di Sant’Elian: le foto diffuse online la mostrano aperta. Delle reliquie è stato fatto scempio. I presuli locali continuano a chiedere con forza un intervento decisivo per fermare l’orda nera, lasciando da parte discorsi sull’accoglienza di migranti e profughi. Il patriarca della chiesa cattolica greco-melkita, Gregorio III Laham, ha lanciato nei giorni scorsi un appello ai paesi occidentali: “Il punto centrale non è accogliere e ospitare i profughi, ma fermare il conflitto alle radici. Tutti devono essere coinvolti, dall’occidente alle nazioni arabe, dalla Russia agli Stati Uniti. Questo è ciò che aspettiamo, la pace. Non parole sui migranti e discorsi sull’accoglienza”. Bisogna fare il possibile, ha aggiunto Gregorio III, per “continuare a essere presenti nella regione, anche se il cristianesimo è un bersaglio. Senza i cristiani, ci sarebbe un vero choc di civiltà”.
L'editoriale dell'elefantino