Sono tornate le frontiere, ma non erano mai scomparse
La Germania ha sospeso per necessità gli accordi di Schengen ma il polverone che viene sollevato sulla rinascita delle frontiere in Europa è l’effetto di un equivoco volutamente trascurato: se non si controlla in nessun modo l’ingresso ai confini esterni dell’Europa si crea un problema che si riflette su quelli interni, cioè ogni stato nazionale è costretto a organizzarsi per difendersi dall’invasione. Da qui i titoli forvianti sulla fine degli accordi di Schengen (vedi Repubblica). La ricerca di una regolamentazione per l’ingresso degli stranieri, la selezione tra rifugiati e migranti economici, è un’operazione complessa, che non può essere sostituita dalla logica del “todos caballeros”.
I paesi più esposti al primo ingresso dei migranti, la Grecia, l’Italia e ora l’Ungheria, hanno ragione a chiedere che l’Europa si faccia carico delle operazioni di riconoscimento, selezione, accoglienza o rimpatrio. Però gli altri paesi chiedono, non infondatamente, che quelli frontalieri si attrezzino per rendere logisticamente possibili queste operazioni. Eppure se si parla di qualsiasi forma di permanenza controllata si accende la polemica sui “campi di concentramento”. L’irrazionalità che sembrava l’elemento caratteristico delle reazioni identitarie contro “l’invasione” ora sta diffondendosi al campo opposto, quello che propugna l’accoglienza illimitata. Senza strumenti, regole, meccanismi condivisi non si può gestire un fenomeno come quello attuale. Per mantenere aperti i confini interni all’Europa bisogna controllare e gestire quelli esterni, come ha suggerito il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel. Non c’è alternativa utopistica che regga.