In pellegrinaggio da Putin
Ieri è stata inaugurata a Mosca una grande moschea – nasce sopra a un’altra che era stata distrutta nel 2011, è più grande, può contenere diecimila fedeli – e per l’occasione si sono presentati al cospetto di Vladimir Putin il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, e il rais palestinese Abu Mazen. Il pellegrinaggio alla corte dello zar è frenetico, tutti vogliono capire che cosa ha in mente di fare la Russia con tutte quelle armi in Siria: americani e israeliani hanno già avuto colloqui, ora tocca soprattutto a Erdogan, che da sempre vuole avere un ruolo nella gestione della crisi siriana, ma che in anni di tentennamento collettivo si è ritrovato a essere sempre sulla linea del fronte ma incapace di mettere a punto un piano preciso.
Il presidente turco chiede fin dal 2012 la caduta del regime di Bashar el Assad a Damasco, ma il suo piano di regime change è sempre stato infarcito di tale e tanta ambiguità che non si è mai riuscito a creare un’alleanza coesa. Ora che bombarda le postazioni dello Stato islamico, Erdogan chiede di avere più voce nella coalizione, ma i continui attacchi ai curdi del Pkk contribuiscono, ancora una volta, a indebolirlo (ieri due ministri del governo turco, membri del partito pro curdo Hdp, si sono dimessi). Putin, come si sa, è andato in Siria principalmente per difendere il regime di Assad, e in subordine per combattere lo stato Islamico, ed è difficile immaginare che nei colloqui moscoviti il presidente turco possa avere ampi margini di manovra. Già l’incontro tra i ministri degli Esteri è stato fallimentare: la distanza pare inconciliabile, ma se un compromesso ci sarà, sarà da parte dei turchi. Tra armi e potenza politica, Putin può continuare a farla da padrone, in Siria. E a occupare ancora una volta gli spazi sguarniti che gli concede l’occidente, anche, se vogliamo, nella lotta contro lo stato Islamico.