Tra virgolette
Il presidente che non impara niente
Roma. Dalle colonne del Wall Street Journal Bret Stephens, columnist storico della testata economica americana, ha descritto in un op-ed pubblicato ieri la politica estera del presidente Barack Obama all’indomani degli scontri con Vladimir Putin all’Assemblea generale dell’Onu. Ancora ieri, durante un summit antiterrorismo al Palazzo di vetro, Obama si diceva sicuro della sconfitta sul campo dello Stato islamico, non in virtù di una strategia militare precisa, ma perché “siamo guidati da una visione migliore”. Questo idealismo ottimista è esattamente quello che Bret Stephens definisce “unteachable”, incapace di imparare dai propri errori. “Barack Obama ha detto che è preoccupato perché ‘correnti pericolose rischiano di spingerci indietro in un mondo più buio e meno ordinato’”, scrive Stephens. “E’ gentile da parte sua accorgersene, ma non vi aspettate che faccia qualcosa per risolvere la situazione”.
“Fino a non molto tempo fa Obama aveva una visione più positiva degli affari del mondo”, scrive Stephens, che poi elenca il numero degli annunci trionfali dell’Amministrazione trasformatisi in disastri, minacciosamente vicini alla sicurezza dimostrata ieri davanti alla minaccia dello Stato islamico: “La marea della guerra stava retrocedendo. Al Qaida era vicina alla sconfitta. Lo Stato islamico era ‘una squadra amatoriale’ con ‘le uniformi dei Lakers’. L’Iraq era una success story dell’Amministrazione. I giorni di Bashar el Assad al potere erano contati. La primavera araba era un argine, e non un’opportunità per la violenza islamista. L’intervento in Libia era una rivendicazione per l’approccio del ‘leading from behind’. Il reset con la Russia era un successo, posizione mantenuta fino alla fine del 2013. In America latina ‘il trend è buono’. ‘Tutto sommato’, come Obama ha detto a Tom Friedman nell’agosto del 2014, poco dopo che lo Stato islamico aveva conquistato Mosul e Vladimir Putin si faceva strada nell’oriente ucraino con la forza, ‘penso che ci sia ancora ragione di essere ottimisti’”.
“E’ una serie notevole di previsioni, sbagliate al cento per cento”, scrive Stephens. “Il presidente professore che adora parlare di episodi formativi sembra non imparare niente. Per quale ragione?”.
Certo, i politici di tutti i colori amano esagerare i propri successi, e questo è “quasi perdonabile”, scrive Stephens. Ma Obama “non stava davvero facendo previsioni: sceglieva l’ottimismo, scommetteva sulla speranza. I successi erano forgiati da lui; i fallimenti dipendevano da forze fuori dal suo controllo, e così via. Ma c’è una logica più profonda nel modo di pensare del presidente, che dipende da una necessità ideologica. Il presidente vuole dichiarare risolti i dilemmi americani in politica estera per potersi concentrare sul suo compito preferito, il ‘nation building at home’. Una strategia di ritiro e appeasement, un pregiudizio contro l’intervento militare, il favore accordato a risposte minime: l’obiettivo è quello di allontanare l’America dalle tragedie delle altre persone”. Il punto, scrive Stephens, è che quando definisci il tuo obiettivo politico come “trasformare in maniera radicale gli Stati Uniti d’America”, come Obama ha fatto all’inizio del suo primo mandato, non c’è spazio per nient’altro.
[**Video_box_2**]“Ma questo non è tutto”, aggiunge Stephens. “Il presidente ha anche una teoria morale sul potere americano, espressa nel 2009 a Praga, secondo cui ‘la leadership morale è più forte di qualsiasi arma’. Al tempo, Obama stava parlando della fine della Guerra fredda e del suo desiderio di vedere un mondo senza armi nucleari. Sembra che non gli sia venuto in mente che proprio il possesso di queste armi da parte dell’America abbia avuto un ruolo nella vittoria della Guerra fredda. Né sembra contemplare l’idea che la leadership morale non può essere un sostituto adeguato delle armi a meno che i leader non siano pronti ad affidarsi al senso dell’onore dei loro nemici. Nel vecchio Sudafrica o nell’Unione sovietica, dove uomini come F. W. de Klerk o Mikhail Gorbaciov avevano senso dell’onore, la teoria di Obama avrebbe anche potuto funzionare. Ma nell’Iran del 2009 o nella Siria odierna questo non basta”. Ma per il presidente, scrive Stephens, essere “dalla parte giusta della storia” è abbastanza. “Dopo aver dichiarato le nostre buone intenzioni perché sporcarsi le mani con il rozzo e compromettente esercizio del potere? Nella visione di Obama, non è l’uomo sul campo che conta, è l’oratore sul palco”. “Da ultimo, Obama è sicuro che la storia stia andando dalla sua parte”, conclude Stephens, che critica l’atteggiamento distaccato con cui il presidente affronta gli interventi di Putin in Siria (“destinato al fallimento”) e in Ucraina (“non molto furbo”), “per non parlare della sua indolenza quando si parla degli altri fallimenti della sua politica estera”. Obama ha una visione del mondo da “hegeliano annacquato”, in cui gli Stati Uniti “possono stare tranquilli perché la Storia è dalla nostra parte, e il percorso della storia tende verso la giustizia. Perché sprecare le tue energie per raggiungere un destino che è già inevitabile?”.
“E’ facile accettare questa visione della vita se devi la tua improvvisa fortuna allo charme e a una comprensione superficiale del modo in cui funziona il mondo”, conclude Stephens. “Fare lezioni è più facile che imparare, e predicare più facile che agire. La storia ricorderà Barack Obama non come il presidente che ha condotto la sua politica estera come un’applicazione del potere americano basata sui princìpi, ma come un tentativo generale di giustificare la propria fuga da esso. Da Aleppo a Donetsk a Kunduz, i popoli vivono con le conseguenze di questa fuga”.