La guerra di Airbnb
La Proposition F che è finita ieri al vaglio degli elettori di San Francisco non è soltanto un’iniziativa di cittadini indignati per le malefatte immobiliari di Airbnb a livello locale, ma un test sugli effetti collaterali della sharing economy. Il referendum chiede che la città di San Francisco permetta soltanto alle abitazioni adibite agli affitti per periodi brevi di finire nel circuito di Airbnb e piattaforme simili, per mitigare il rialzo dei prezzi. “Share Better” è il motto degli ideatori della campagna anti Airbnb: non un atto d’accusa alla sharing economy, ma un invito a regolamentare in modo equilibrato un mercato in cui gli affitti sono cresciuti del 17 per cento nel giro di un anno.
All’esplosione dei prezzi ha contribuito anche la massiccia immissione nel mercato di case in affitto per brevi periodi, chiaramente sovrapprezzo ma lo stesso appetibili per i facoltosi abitanti della bolla tecnologica che tende a creare bolle immobiliari. Il mercato non sta cacciando da San Francisco la working class ma il ceto medio, che non può competere con il portafoglio dei figli, spesso single, della Silicon Valley. Che per Airbnb si tratti di una battaglia esistenziale, poiché tecnicamente esportabile ovunque, lo si capisce dagli oltre 8 milioni di dollari che l’azienda ha investito nella controcampagna, un ordine di cifre vicino a quello che si spende per un candidato sindaco, non per un semplice referendum locale. Per la compagnia da 25 miliardi di dollari è vitale che fra la domanda e l’offerta ci siano meno strati di regolamentazione possibili, e pazienza se lungo la via viene fuori qualche bolla immobiliare.
L'editoriale dell'elefantino