La vendetta iraniana
Alla vigilia del 36esimo anniversario della crisi degli ostaggi nell’ambasciata americana di Teheran, la tv di stato iraniana ha annunciato l’arresto di un libanese-americano, di cui si erano perse le tracce da settimane, che era stato invitato in Iran dal governo stesso. E’ accusato di spionaggio, la stessa accusa rivolta al giornalista del Washington Post, Jason Rezaian, che è a processo dal maggio scorso dopo essere stato detenuto per più di un anno nella prigione di Evin (nei primi mesi non si sapeva nemmeno dove fosse). A Teheran sono spuntati, come ha raccontato il corrispondente del New York Times Thomas Erdbrink, nuovi cartelloni anti americani, incluso uno che si fa beffe della famosa immagine della bandiera issata a Iwo Jima che simboleggia il sacrificio dei marine nella Seconda guerra mondiale.
La Guida suprema, Ali Khamenei, in una delle sue puntualizzazioni – è un momento in cui la leadership iraniana vuole puntualizzare sempre ogni cosa, la grande apertura all’occidente ha un prezzo – ha detto che lo slogan “Morte all’America” non finirà mai, è eterno. Per non sbagliare anche la versione iraniana della catena di fast food Kentucky Fried Chicken è stata chiusa nel giro di pochi giorni. E’ appena iniziata una nuova offensiva contro giornalisti e intellettuali – ci sono stati cinque arresti “famosi” negli ultimi giorni, tutti prelevati dall’unità d’intelligence delle Guardie delle rivoluzione – in vista delle elezioni di febbraio, considerate un test della leadership del “presidente del deal” Rohani. Il messaggio dell’Iran è chiaro: ci saremo anche messi d’accordo, ma non abbiamo intenzione di inaugurare una nuova apertura.