L'Ue è ancora una volta contro Israele
Dopo tre anni di esitazioni, la Commissione europea ieri ha ceduto alla lobby anti Israele e ai boicottatori anti-semiti adottando una “nota interpretativa” per imporre l’etichettatura di alcuni prodotti importati nell’Unione europea dagli insediamenti israeliani. Da oggi il “made in Israel” non potrà più essere usato per i prodotti agricoli e i cosmetici che vengono da fuori i confini del 1967: i coltivatori e gli industriali israeliani che operano in Cisgiordania dovranno appiccicare la dicitura “insediamenti” sulle merci vendute nell’Ue. Se non lo faranno, toccherà a supermercati o negozi europei farlo, quando la Commissione ha sufficienti informazioni sulla provenienza.
L’esecutivo comunitario si è difeso spiegando che si tratta di una questione “tecnica”. Ma la mossa ha un profondo significato politico in un’Ue sempre più tentata dalla politica unilaterale del riconoscimento della Palestina. Il premier israeliano Netanyahu ha detto che l’Ue dovrebbe “vergognarsi” per la “discriminazione” che punisce “la parte che è sotto attacco del terrorismo”. Il Marocco non è costretto a etichettare il pesce “Sahara occidentale”. Il “made in Taiwan” non è stato cancellato dalla politica di “una sola Cina”. Le merci di Cipro nord, occupata dalla Turchia, sono una questione interna per l’Ue. Paradossalmente, le vittime collaterali rischiano di essere i palestinesi. La decisione riguarda uva, datteri, vino, miele, olio d’oliva e cosmetici per un valore di 50 milioni di dollari: una goccia nel mare dei 30 miliardi di dollari di scambi tra Israele e l’Ue, ma una fonte di reddito significativa per i palestinesi che lavorano nelle aziende agricole della Cisgiordania.