Fortezza Europa?
New York. Michael Walzer guarda l’Europa ferita e terrorizzata, tentata dal paradigma dell’arroccamento e dalla chiusura difensiva – altro che abbracci multiculturali – e ammette che anche i liberal qualche responsabilità ce l’hanno. Una responsabilità che non ha a che fare con il massacro jihadista parigino, s’intende, ma con “l’illusione che la sicurezza non sia un problema, una percezione che abbiamo alimentato per troppo tempo”, spiega.
L’ottantenne filosofo di Princeton, che del pensiero liberal contemporaneo è diventato un padre grazie agli studi sulle sfere della giustizia e sulle teorie della guerra giusta, parla con il Foglio dei limiti di un certo progressismo naïf, che “ha finto di non vedere che la gente è preoccupata per la sicurezza, che è uno dei beni comuni che lo stato deve impegnarsi a garantire”. E’ convinto che “tornerà un regime di controlli sui confini interni ed esterni dell’Europa”, e che sarà “un male per la democrazia occidentale”, ma non è che l’esito di un assetto politico insostenibile: “L’Europa è ancora molto lontana dall’unità che sarebbe necessaria per poter garantire in modo credibile la sicurezza. L’incapacità di trovare una politica comune sui rifugiati mette in luce il fatto che l’Unione europea è ancora un agglomerato di nazioni, e i terribili attentati di Parigi mostrano che da un punto di vista dell’intelligence la strada è ancora lunga. I rifugiati che scappano da una guerra civile terribile non possono diventare le vittime di questa situazione, ma non si possono non affrontare le richieste di sicurezza del popolo”.
La guerra al terrore, per Walzer, è “essenzialmente una guerra di polizia” e il Vecchio continente semplicemente non è attrezzato per affrontarla. Fa il paragone con i problemi degli Stati Uniti per rimarcare l’idea dell’inadeguatezza europea: “Qui abbiamo enormi problemi nella comunità d’intelligence, l’Fbi non parla con la Cia, l’intelligence militare non si fida della polizia e via dicendo. E siamo una nazione unica!”.
[**Video_box_2**]In America, continua Walzer, “condividiamo strutture e apparati di sicurezza a livello federale, e lo stesso ci sono disfunzionalità enormi. Figurarsi quando bisogna mettere insieme stati diversi che hanno regole e protocolli diversi ma offrono libertà di movimento a tutti i cittadini all’interno di una comunità così vasta. La questione è la solita: si tratta di cedere pezzi di sovranità nazionale per costruire un’unione vera. Gli stati europei sono disposti a farlo? Quello che è successo a Parigi, al netto delle manifestazioni di solidarietà, che sono importantissime, credo che alimenterà il senso di frammentazione”. Walzer, garantista con sporgenze realiste, è sempre stato un critico degli eccessi della sorveglianza americana del post 11 settembre, ma sostiene che nel perimetro democratico “esiste, deve esistere, lo spazio per garantire la sicurezza senza calpestare le libertà individuali. Io credo che il compito dei liberal, in questo momento, sia mostrare che questo equilibrio è possibile, senza raccontare e raccontarsi che chiunque chiede sicurezza è promotore di uno stato fascista. Non sono mai stato un fan di Bush, com’è noto, ma dopo l’11 settembre ha continuato a dire che l’America non era in guerra con l’islam, un messaggio molto saggio. Se guardiamo le statistiche dei crimini commessi in America contro i musulmani, vediamo che negli ultimi mesi del 2001 sono aumentati drasticamente, ma già l’anno successivo sono tornati ai livelli normali. Ecco, all’Europa serve qualcuno che spieghi, in modo equilibrato, che la colpa del terrore non deve ricadere sui rifugiati”. E’ una guerra di polizia in casa, ma una guerra tout court nelle terre rivendicate dal Califfato, dove però “non siamo ancora riusciti a capire qual è l’arma migliore per combattere lo Stato islamico”, dice Walzer. “Di certo abbiamo capito che la guerra dall’alto non funziona senza uomini a terra. L’altra cosa che abbiamo capito è che l’occidente non può fare a meno di compromettersi con Putin e Assad, e il motivo di questa spiacevole necessità è innanzitutto la crisi dei rifugiati. Verso di loro abbiamo la responsabilità di lavorare per ristabilire uno stato, quello siriano, che sia in grado di garantire un minimo di sicurezza”.
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