Confini etnici in Siria, un brutto rischio
Sono vent’anni giusti dagli accordi di Dayton, che misero fine alla mattanza nella ex Yugoslavia (e lasciarono al potere, donec aliter provideatur, Slobodan Milosevic). L’accordo servì a creare un provvisorio ordine politico, etnico e religioso. Sulla Stampa Maurizio Molinari ha dato conto di un dibattito in corso negli ambienti diplomatici a proposito della possibilità di modificare i confini mediorientali (“la violazione di un tabù”). O per meglio dire: dividere la Siria in quattro stati: curdo nel nord, sunnita nel centro, alawita sulla costa, più una “area internazionale” nei territori ora dell’Is.
Sono idee espresse nei mesi scorsi dall’analista francese Fabrice Balanche e di recente riprese da James Dobbins, ex inviato speciale di Obama in Afghanistan e Pakistan, che ha fatto riferimento alla divisione della Germania post 1945. Bene fa Molinari a cogliere, ora, l’urgenza di un tema che sarà importante approfondire. Tenendo conto di alcuni caveat. Il primo è che una quadripartizione della Siria somiglia di più a una traballante Dayton che alla Germania anno zero. Il secondo è che Dayton non modificò stati e confini, e inoltre bisognerebbe pensare quantomeno a cosa fare in Iraq, vaste programme. Ultimo, ma il più importante di tutti: nel male ma anche nel bene, il medio oriente è da oltre 15 secoli un crogiuolo e un modello unico di convivenze razziali e religiose; ripulirlo diplomaticamente su base etnica significa, né più né meno, sancire la fine di quella storia. Scelta non proprio indolore, né senza conseguenze e incognite. Una delle quali, ma senza incognite, è che una tale risistemazione segnerebbe la fine della presenza dei cristiani e di altre minoranze in quella parte di mondo. Giusto la tragedia che si vorrebbe evitare.