La narrazione che uccide
Si sa: il problema che tiene sveglio il leader contemporaneo è quello di narrare e narrarsi. Costruire una trama da serie tv, assemblare un’anima avvincente, retwittabile, e scartare ciò che non si conforma al canone, perfino se si chiama Stato islamico e vuole far saltare in aria tutto quanto. Il generale Michael Flynn, ex capo dell’intelligence militare, l’ha messa giù così: la Casa Bianca nel 2011 e nel 2012 ha ricevuto molte segnalazioni che preconizzavano l’alba del Califfato, ma Obama era troppo impegnato con lo storytelling elettorale per considerarle: “Non penso che si conformassero alla narrazione di cui la Casa Bianca aveva bisogno. E sinceramente non si conformavano”. La narrazione che l’Obama in cerca di un secondo mandato approvava era: “Al Qaida è in fuga e Bin Laden è morto”.
Tutto il resto era un fastidioso rumore di fondo da scartare. Si capisce perché i generali sono tentati di addolcire i rapporti dal fronte. Flynn non ha motivazioni politiche apparenti per aggredire a posteriori Obama, se cova qualche forma di risentimento è una pulsione bipartisan, visto che se la prende senza sconti anche con le decisioni di Bush. Ma a Obama non contesta colpe strategiche, quanto il più infido peccato di vanità con cui ha anteposto la sua fortuna presidenziale alla sicurezza globale. La narrazione è la grande “red line” che il presidente ha tracciato e si è rifiutato di valicare. Prima o poi queste cose Obama dovrà narrarle anche all’occidente sotto attacco.