Come si dice “accoglienza” in svedese
Con motivazioni che devono far riflettere tutti i paesi europei, a cominciare da quelli – Italia compresa – dalla retorica solidaristica facile, dirigenti e politici svedesi spiegano perché la Scandinavia sospende il trattato di Schengen e chiude agli immigrati le porte che per decenni erano rimaste aperte. Non è solo questione di numeri, pure insostenibili per la Svezia, con 163 mila richieste di asilo accolte nel 2015 su 9,5 milioni di abitanti. Come se noi, 153 mila rifugiati su 60 milioni di abitanti, ne avessimo presi un milione. “Si tratta anche del rispetto che dobbiamo a chiunque venga nel nostro paese”, annuncia il premier socialdemocratico Stefan Löfven. “Non possiamo più garantire aiuto e una sistemazione dignitosa ai rifugiati”, osserva il Migrationsverket, l’ente per l’immigrazione.
E le tendopoli nella Scania, la contea di Malmö, fanno dire alla Croce Rossa: “Non è una situazione ammissibile in un paese come il nostro e in pieno inverno”. Il welfare scandinavo ha avuto storicamente alti e bassi, ma evidentemente non dimentica i fondamentali e se ne assume le responsabilità: uno stato civile rifiuta l’accoglienza indiscriminata basata sui campi profughi (e relativi business), ragiona sulle possibilità di lavoro e d’istruzione, sui diritti e sui doveri. Cioè, oltre una certa soglia, privilegia l’integrazione rispetto alle porte aperte, allo spot misericordioso, al buonismo che non guarda al dopo: ricorda nulla? Categorie nelle quali pare rientrare l’offerta del comune di Milano di 350 euro a chi prenda in casa un migrante, anche in attesa di asilo; magari strizzando l’occhio alle prossime elezioni.