Obama fa l'ottimista, ma lascia un'America più divisa e litigiosa
Roma. E' stato un discorso tutto in favor di legacy l'ultimo pronunciato sullo stato dell'Unione dal presidente americano Barack Obama, che ha difeso i risultati del suo mandato, sostenuto i progressi fatti dall'America sotto la sua guida nel campo della sicurezza e della politica estera.
Parlando del ruolo dell'America nel mondo, e sulla capacità del paese di rispondere alle sfide, Obama ha ribadito la leadership americana: "Gli Stati Uniti d'America sono la nazione più potente del mondo, punto", ha detto. "Quando si tratta di grandi affari internazionali i popoli del mondo non cercano Pechino o Mosca, chiamano noi". Obama ha definito come successi americani sotto il suo mandato il deal nucleare con l'Iran, l'apertura a Cuba, e il ruolo di Washington nel combattere l'epidemia di ebola in Africa. Ha definito lo Stato islamico e al Qaida una "minaccia diretta al nostro popolo", ma non una "minaccia alla nostra esistenza nazionale". Ma l'approccio alle minacce che vengono dall'estero, ha aggiunto Obama criticando direttamente il Partito repubblicano e in particolare il candidato presidenziale Ted Cruz, "deve essere qualcosa di più che parole dure e invocazioni a bombardare a tappeto i civili. Questo può funzionare in tv, ma non è accettabile sul palcoscenico mondiale".
Sull'economia Obama ha rivendicato i risultati della sua presidenza, descrivendo l'America come una nazione pienamente uscita dalla crisi economica. "Chiunque dica che l'economia americana è in declino racconta frottole", ha detto. "La verità per cui molti americani si sentono ansiosi è che l'economia sta cambiando profondamente". "Ma il futuro che vogliamo, opportunità per tutti e sicurezza per le nostre famiglie, standard di vita più alti e un pianeta sostenibile e pacifico per i nostri figli, sono tutti a portata di mano".
[**Video_box_2**]E' stato un tono ottimista quello usato dal presidente, che ha invitato gli americani a credere nella sua visione e ha ammesso di avere solo pochi rammarichi. Tra questi, la polarizzazione della vita politica e civile americana. "Il rancore e il sospetto sono diventati peggiori anziché migliorare", ha detto. "Mentre la frustrazione cresce, ci saranno voci che ci esortano a raggrupparci in tribù, a trasformare in capri espiatori cittadini che non ci assomigliano, che non pregano come noi o non votano come noi o non hanno lo stesso background. Non possiamo permetterci di scendere in questo cammino. Obama ha parlato delle divisioni razziali, e ha criticato direttamente la retorica aspra di Donald Trump sui musulmani: "Quando i politici insultano un musulmano, quando una moschea è vandalizzata o un ragazzino tormentato dai bulli questo non ci rende più sicuri", ha aggiunto. "E' sbagliato, riduce la nostra importanza nel mondo. Rende più difficile raggiungere i nostri obiettivi. E tradisce quello che siamo come paese".
Ma la vera questione che Obama ha toccato è quella che diversi grandi presidenti, a partire da Washington, hanno rilevato: il rammarico finale è che il paese è diviso, litigioso, partigiano, fazioso. La promessa nascosta dietro a tutte le sue promesse era il traghettamento millenaristico nell’era dell’America postpartisan, il superamento della “fazione”, il peccato originale denunciato da Madison e padri fondatori. Dire sette anni dopo che il “rancore e sospetto” fra i partiti aumentano invece di scemare è una cosa notevole, se si tiene conto delle premesse (e delle promesse).