Berlino non esclude l'intervento in Libia. Conferme sul ruolo italiano
Milano. La Germania “non potrà evitare le proprie responsabilità”, ha detto alla Bild il ministro della Difesa tedesco, Ursula von der Leyen, alla domanda: manderete truppe in Libia? Dovremo dare il “nostro contributo”, ha spiegato il ministro, confermando che uno sforzo collettivo è già in atto. Il New York Times ieri ha scritto: “Negli ultimi sei mesi, i militari americani sono stati a Misurata dove hanno stabilito link ‘militari e di intelligence’, come dice Abdulrahman Swehli, influente politico della città che aggiunge: ‘Non è un segreto’ che anche forze inglesi, francesi e italiane stiano cercando allo stesso modo di creare questi link con le fazioni libiche”. L’intervento è già in atto, anche delle forze italiane. Il ministro della Difesa tedesco non ha fornito ulteriori dettagli, ma la preoccupazione per la crisi libica – l’espansione dello Stato islamico è evidente e incontrollabile – si somma a quella per la questione migratoria, che sta spaccando la Germania, e molte alleanze politiche.
Come era chiaro fin dall’inizio della crisi, il flusso di rifugiati e di migranti non può essere fermato se non con un intervento là dove la fuga comincia, in Siria e ora sempre più in Libia, che già era un porto di partenza trafficato e pericoloso, come sappiamo bene noi italiani. Ecco che così anche la restìa Germania, che si è finora riservata un ruolo di sostegno alla coalizione contro lo Stato islamico, ora non può escludere un intervento più importante in Libia. Il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, ribadisce che nulla si può escludere, ma che ci deve essere una richiesta esplicita da parte del governo di unità libico (che ancora si sta formando, con enormi difficoltà: si continua a rimandare la data di un eventuale insediamento). Gentiloni ha spiegato che le parole tedesche sono in linea con la politica adottata finora, ma c’è grande attesa sull’incontro previsto per oggi tra il ministro della Difesa italiano, Roberta Pinotti, e il collega francese, l’agguerrito Jean-Yves Le Drian: la collaborazione tra Francia e Italia sulla questione libica è necessaria e urgente, ma non ancora concordata, per usare un eufemismo.
[**Video_box_2**]Le difficoltà sono molte. Il New York Times le ha messe in fila tutte, e il risultato era piuttosto allarmante. Il controterrorismo americano considera la “filiale” libica dello Stato islamico la più pericolosa di tutte, espande il territorio conquistato a un ritmo molto rapido e organizza attentati di massa: alcune fonti dell’intelligence americana hanno spiegato al Washington Post che l’obiettivo principale è il petrolio, ma che l’arruolamento nella “provincia libica” non è soltanto il frutto di una fuga da Siria e Iraq per i bombardamenti della coalizione occidentale: “Non è come un tubetto di dentifricio che si schiaccia da più parti”, ha detto una fonte, molti jihadisti stanno lavorando alla nuova filiale, per così dire, in proprio. Per contrastare tale avanzata, gli Stati Uniti, con gli alleati europei, hanno dovuto corteggiare alleati poco affidabili “nel patchwork di milizie libiche”, scrive il New York Times, con il risultato che la risposta rischia di non essere minimamente efficace (per non parlare della questione dell’addestramento delle forze locali, che ha già avuto un destino funesto in Siria, tra tentennamenti e interlocutori difficili da individuare). Non ha fatto soltanto questo, l’America: nell’ultimo anno, gruppi di forze appartenenti alle Special Operations – sempre più utilizzate nella regione, dicono che sono “the new drone” per il presidente Barack Obama – del comando in Africa sono andati in Libia per raccogliere informazioni, costruire contatti nelle varie fazioni e valutare se e come ci fossero forze abbastanza affidabili per lavorare assieme a truppe alleate degli Stati Uniti. Il lavoro è stato molto difficoltoso, per le rivalità interne e le decine di obiettivi differenti tra milizia e milizia.