Gli inevitabili boots on the ground
Ieri il segretario alla Difesa dell’Amministrazione Obama, Ash Carter, ha scritto un editoriale su Politico per annunciare che manderà soldati della Centounesima divisione aviotrasportata a combattere contro lo Stato islamico in Iraq. Carter non dice il numero, ma i media iracheni tre giorni fa parlavano di 1.800 uomini (si vede che il governo iracheno non sa tenere le informazioni riservate). Il cambio di concetto è chiaro: qui non si parla più di forze speciali, consiglieri militari, esperti di logistica e di comunicazione oppure istruttori – che pure ci sono. Qui si tratta di soldati, per infliggere allo Stato islamico una “lasting defeat”, una sconfitta che durerà a lungo.
La dichiarazione di Carter arriva accompagnata da un altro paio di notizie: gli americani hanno preso e stanno espandendo un aeroporto in Siria, a Rmeilan, nell’area controllata dai curdi, e le forze speciali francesi stanno combattendo nell’area di Mosul. La guerra dall’alto non sta producendo i risultati sperati e tocca ai boots on the ground, per ora in modica quantità. Chi critica quest’approccio dice che così si espongono i soldati e si rischia di eccitare le potenziali reclute di Baghdadi – andiamo a combattere gli infedeli in Iraq! – ma come ha scritto Aris Roussinos, inviato di guerra dell’anticonformista Vice News, a questo punto dobbiamo scegliere se preferire perdite fra i civili nelle città occidentali o fra i soldati che sanno come difendersi in medio oriente.
I conservatori inglesi