No, Guantanamo non è chiuso
Guantanamo non garantisce maggiore sicurezza all’America, anzi, ne toglie, è diventato un potente strumento di propaganda per i jihadisti di tutto il mondo. Guantanamo costa, costa tanto, possiamo risparmiare (dai 65 agli 85 milioni di dollari ogni anno) se chiudiamo questo supercarcere sull’isola di Cuba che pesa da un decennio sulla coscienza dell’America. Così martedì Barack Obama ha presentato “il piano per chiudere Guantanamo”, il piano per “chiudere un capitolo della storia americana” che da sempre lui e i liberal vogliono dimenticare, studiato in sette anni (al suo primo discorso sullo stato dell’Unione il neopresidente dei sogni disse che in un anno, cioè nel 2010, il supercarcere sarebbe stato chiuso) e articolato in quattro punti. Si va dal trasferimento dei detenuti considerati meno pericolosi (35 sui 91 attualmente presenti a Guantanamo) ai paesi di origine alleati che garantiscono uno standard di sicurezza e di diritti adeguato fino alla selezione di prigioni di massima sicurezza sul suolo americano dove portare i detenuti non trasferibili altrove (46), compresi quelli (sono 10) che oggi sono sotto la giurisdizione delle commissioni militari istituite dall’Amministrazione Bush. Alcuni potrebbero accedere a un processo delle corti federali, altri sarebbero detenuti a tempo indeterminato senza processo. Non aveva ancora finito di parlare, Obama, che i repubblicani già dicevano: il piano è “illegale” (John McCain ha parlato di “un vago menù di opzioni”).
C’è una legge che vieta di dare finanziamenti al trasferimento da Guantanamo agli Stati Uniti, e il Congresso a maggioranza repubblicana non ha mai mostrato alcun desiderio di modificarla (non la mostrò nemmeno il Congresso democratico, va detto). Obama dice che i tic partigiani su una questione di tale importanza dovrebbero essere messi da parte, e che il paese dovrebbe unirsi per portare avanti una missione tanto importante per l’immagine dell’America. Non voglio lasciare al mio successore questo peso, ha detto Obama, facendo capire che non è un caso che, dopo sette anni di inutili sforzi e di promesse altisonanti finite nel nulla, abbia deciso di mandare avanti il piano del Pentagono a una settimana dal Super Tuesday che definirà in modo più chiaro il corso delle primarie presidenziali. Se poi il piano dovesse arenarsi be’, la colpa è dei repubblicani.