Se la Turchia elogia le schiave dell'harem
Come passare i giorni che ci separano dall’ennesimo summit Unione europea-Turchia sulla crisi migratoria, in programma i prossimi 17 e 18 marzo? Aspettando un’apparentemente inevitabile capitolazione di fronte alle nuove onerose richieste di Ankara, già peraltro accettate in linea di massima al vertice dello scorso lunedì su impulso di una cancelliera terrorizzata da imminenti elezioni regionali? O magari interrogandoci su chi abbiamo di fronte dall’altro lato dell’Egeo e su come siamo riusciti a far fallire una delle poche success stories made in Bruxelles – il potere di condizionalità del progetto europeo che ha trasformato i paesi del blocco comunista in stati membri dell’Unione?
Forse non è chiara una cosa: la Turchia che, sicura di poter vincere, alza la posta in gioco – altri tre miliardi di euro in aiuti, abolizione dei visti verso l’Ue e ripresa dei negoziati per l’adesione – non è più la Turchia di Atatürk. Come hanno fatto i leader europei ad accogliere il sorridente premier Davutoglu dopo che il suo governo aveva pochi giorni prima occupato il più venduto giornale turco, stravolgendone la linea editoriale? O che dire della first lady, Emine, moglie del presidente Erdogan, la prima first lady velata della storia turca, che durante un evento ufficiale ha detto che “l’harem era una scuola per preparare le donne alla vita”? Un elogio dunque dell’harem imperiale del palazzo di Topkapi a Istanbul, dove le donne erano tenute in condizioni di sottomissione, alcune in schiavitù. Di questo passo, su cosa basare la condanna dei mercati del sesso del califfo Baghdadi? La Turchia ha un volto sempre più sinistro e oscurantista.