Lezioni panamensi da Cameron
Difendo il diritto di ogni cittadino britannico a fare soldi in modo legale”: poteva giocare in difesa David Cameron, spiegando a Westminster la presenza del defunto padre nei Panama papers e come quei fondi lui li abbia legittimamente ereditati pagandoci le tasse. Poteva, come si usa oggi, strizzare l’occhio ai sondaggi, al pauperismo e all’equosolidarismo. Invece ha guardato avanti riaffermando un principio da scolpire in ogni costituzione libera, compresa quella più bella del mondo: il diritto alla ricchezza. Nella Dichiarazione d’indipendenza americana c’è il diritto alla felicità. La nostra Carta collega alla “funzione sociale” la tutela della proprietà privata. Il fallout panamense e il pedaggio all’invidia mediatica spingono i ministri – vedi una dichiarazione congiunta del tedesco Schäuble e del francese Sapin, ministri delle Finanze – a promesse di nuovi giri di vite fiscali “a favore degli onesti”. Il Papa, citando alla larga Jacques Le Goff, definisce il denaro “sterco del diavolo”.
L’occidente che come un samurai collettivo fa seppuku sul velo alle donne dimentica che in due secoli l’aspirazione e la creazione di ricchezza ha ridotto in modo formidabile povertà e diseguaglianze, dato lavoro e salute, cultura e benessere. Fare soldi non è un gioco a somma zero, dove chi più ha toglie a chi ha meno, come piace dire alle anime belle: diversamente gli italiani non sarebbero a valori attuali venti volte più ricchi che nel 1861, e la crescita di Stati Uniti ed Europa non sarebbe stata del 300 per cento dal 1928 a oggi, guerre e crisi incluse. Un diritto individuale e un (vero) bene comune. Questo ci ha ricordato Cameron.