I desaparecidos di Allah
Nell’arco di tre giorni ci sono stati altri due morti in Bangladesh. Prima è caduto Rezaul Karim Siddique, docente all’Università di Rajshahi, sgozzato a nome dell’Isis perché reo di “ateismo”. Ieri è stata la volta di Julhas Mannan, direttore del magazine Roopbaan, la prima rivista Lgbt bengalese (dove siete indignados della stepchild adoption?). Il 7 aprile scorso è stato ucciso Nazimuddin Samad, studente di Giurisprudenza. Noi in occidente tendiamo a scandalizzarci soltanto quando la violenza arriva da apparati di uno stato, ma questa caccia all’uomo in Bangladesh è tanto più incredibile perché arriva dalla “società civile” cosiddetta.
E’ questo che i morti del Bangladesh hanno in comune con i vignettisti francesi. Sono come i desaparecidos dell’Argentina della giunta militare, ma queste vittime dell’odio islamista non scompaiono nel segreto di una giungla, scaricati da un aereo in volo, bendati, sedati, i parenti ignavi, i carnefici impuniti. No, i bersagli del jihad sono giustiziati alla luce del sole, di fronte al pubblico perché impari la lezione, per strada, spesso di fronte ai familiari, con i colpevoli che affrontano il loro destino (clemente) in tribunale. E’ la repressione della umma, la comunità dei credenti. Molto più difficile da combattere. Perché chiunque, in nome di Allah, può prendere la giustizia nelle proprie mani. Senza bisogno di mostrine. Ma dov’è il nostro “Garage Olimpo”?
I conservatori inglesi