Non è la povertà a fare il jihadista
Quando si fanno esplodere o partono per il jihad, o quando fortunatamente come in questo caso polizia e dell’intelligence li fermano prima, ci si chiede sempre chi siano – chi diavolo siano davvero – questi foreign fighter della porta accanto, questi concreti o aspiranti terroristi islamici che vivono tra noi, addirittura “come” noi. Ieri ci sono stati sei arresti per terrorismo tra Lecco, Varese, Milano: progettavano attentati all’ambasciata israeliana a Roma e in Vaticano. Si tratta di cittadini islamici, con cittadinanza italiana o che vivono qui da tempo. E che si sono “radicalizzati”, si dice. Quasi sempre, scatta un riflesso condizionato giornalistico, ma si tratta di un riflesso culturale profondo e difficile da stanare: la colpa della “radicalizzazione” starebbe nel disagio sociale, nella povertà da cui vengono e in cui sono costretti a vivere. Nell’umiliazione.
Poi, invece, si scopre che questo pre-crimine dell’occidente, che li avrebbe costretti alla scelta terrorista, non esiste, è un paravento debole. Il marocchino con cittadinanza italiana arrestato a Lecco si chiama Moutaharrik Abderrahim, 24 anni, è un kickboxer di una certa notorietà, uno sportivo, non proprio uno spiantato, ha una moglie e due bambini. Abderrahmane Khachia, 33 anni, arrestato nel varesotto, viveva in una casa “di gente modesta e orgogliosa in un piccolo appartamento arredato con grande dignità” ha raccontato VareseNews, che era andato a trovare la famiglia “normale” dopo che suo fratello Oussama era stato espulso dal Viminale e poi ucciso in Siria. Così, più o meno, per gli altri. Storie normali, non esclusione sociale. Invece la rete che li radicalizza, in famiglia o fuori, è di tipo ideologico, religioso. Non è la povertà, non siamo “noi”.