Tra virgolette
Perché Bush aveva ragione sull'Iraq, spiegato a Clinton e Trump
Roma. “Forse oggi non c’è frase più incendiaria nella lingua inglese di questa: George W. Bush ha ancora ragione sull’Iraq”. In un editoriale intitolato “Dubya Is Still Right About War” sul Wall Street Journal di ieri, William McGurn ricorda ai due probabili candidati delle prossime elezioni americane, Hillary Clinton e Donald Trump, l’eredità del presidente Bush in Iraq. “Il 43esimo presidente capiva che una volta che gli uomini e le donne americani sono mandati in guerra, il loro commander in chief ha l’obbligo di vincere”, spiega McGurn. “Ma nelle elezioni presidenziali di quest’anno tale principio è stato sostituito da una nuova ortodossia bipartisan secondo cui l’unica cosa che importa dell’Iraq è la decisione di invaderlo presa da Bush nel 2003… ‘Nessuna persona sana di mente non è d’accordo sul fatto che l’invasione dell’Iraq ha portato alla grande instabilità che vediamo oggi’, dice Hillary Clinton.
Bush con gli uomini di una divisione militare dei paracadutisti (foto LaPresse)
Con il suo caratteristico understatement, Donald Trump dice che andare in Iraq non è stata solo una cattiva decisione, ma la peggior decisione mai presa da un presidente”. Clinton e Trump non centrano il punto, dice McGurn. “La questione operativa oggi non è ciò che l’America ha fatto nel 2003. E’ ciò che l’America deve fare in Iraq adesso. Sembra che il presidente in carica e i suoi possibili successori abbiano risposte simili”. La risposta di Obama, dice McGurn, è un’escalation graduale di “consiglieri” militari e di “forze speciali” che finiscono uccise anche se la loro missione è “non combat”. Clinton ricalca la posizione di Obama, anche lei si dice contro l’invio di truppe. Trump, infine, ha detto in vari modi che vuole lasciare la lotta allo Stato islamico ai russi o agli arabi, oppure “fargli il culo a suon di bombe”, senza capire che la ragione per cui Obama sta mandando sempre più uomini in Iraq è che l’approccio basato solo sugli strike aerei non funziona. “Che differenza con il tanto deprecato Bush”, commenta McGurn.
“Nel gennaio 2007, Bush sfidò il senso comune raddoppiando la posta in Iraq. Il suo piano sarebbe stato chiamato surge”, e fu un successo. Ma oggi, dice McGurn, Clinton dice che il suo rimpianto più grande è stato aver votato per la guerra in Iraq, e Trump sproloquia su quanto scarso fosse Bush. “Né Clinton né Trump si sono pentiti di aver sostenuto la guerra in Iraq fino a che non è diventata impopolare. Né si pentono di non aver sostenuto il surge che ha dato all’America una chance di vincere in Iraq perché a quel tempo era impopolare. Insomma, hanno sempre fatto la scelta più popolare sull’Iraq, seguendo il sentimento comune. E’ questa una qualità che vogliamo da un presidente?”.
“E’ soprattutto impressionante”, continua McGurn, “che nessuno dei due parli dell’errore più rilevante fatto in Iraq fino a oggi: la decisione di Obama di ritirare tutte le truppe americane nel 2011. Il mondo ne sta ancora scontando le conseguenze: l’ascesa dello Stato islamico, la decapitazione di tre americani e un governo sempre più debole a Baghdad. Tutto questo per una guerra che Obama aveva dichiarato finita. Quando Bush ha lasciato la carica nel gennaio del 2009 ha lasciato in eredità a Obama una vittoria militare in Iraq, ed è stato profetico nell’avvertire che un ritiro prematuro dal paese ‘avrebbe soltanto aumentato le probabilità che le truppe americane sarebbero dovute ritornare’. Bush sapeva inoltre che ci sono poche cose più immorali per un commander in chief che mandare i suoi soldati a morire in battaglie ed è non avere un chiaro piano per la vittoria. Quando Obama lascerà la Casa Bianca, invece, lascerà una guerra in Iraq in espansione. Trump e Clinton hanno entrambi promesso di combatterla, ma hanno la pretesa di vincere a buon mercato, senza che il presidente debba prendere decisioni impopolari”.
L'editoriale dell'elefantino