Il gran frullatore di Panama
Preferiremmo non vedere esibite in edicola delle produzioni letterario-giornalistiche cucinate dai raccoglitori-seriali di leak, professionisti del voyeurismo fiscale. Eppure l’instant book “Panama Papers, gli affari segreti del potere” (Rizzoli), in uscita con Repubblica e l’Espresso, appartiene al genere del giornalismo-frullatore, decorato da “sesto potere”. Perché i Panama Papers, piuttosto che incarnare l’autorevolezza del giornalismo moderno, sono la polluzione mondiale di informazioni che riguardano politici, imprenditori, uomini d’affari. Il tutto cucinato per i media con la simultanea e concertata diffusione di documenti riservati sottratti alla ditta legale Mossack Fonseca, dal nome evocativo e per di più circondata da figure in odore di nazismo. Sono leak in formato digitale – 2,6 terabyte, la più corposa fuga di notizie a oggi – offerti dall’anonimo “Mr. John Doe” a un consorzio di reporter finanziato anche da ricche fondazioni americane.
“Sono tutti presenti”, giubilano gli autori Bastian Obermayer e Frederik Obermaier della Süddeutsche Zeitung, la testata contattata per “iniziare la fine dei paradisi fiscali”. Tutti nel frullatore panamense. Dalla camorra agli apparati spionistici, dai narcos fino ai “politici corrotti e agli imprenditori corruttori”, come dice Repubblica presentando l’atto d’accusa da 387 pagine. Di tutti, un fascio. Poco importa se l’attività di proteggere denaro è legale e riguarda i vecchi risparmi di famiglia di certe dinastie imprenditoriali, come i De Benedetti, editori della Repubblica (dei leak), e politiche. Distinguere anziché mascariare sarebbe quello che ci si aspetta dalla “più grande operazione giornalistica del nuovo millennio”.