La presidenza imperiale di Obama
Orfana di un giudice, la Corte suprema americana si è divisa a metà a proposito delle misure, varate due anni fa da Barack Obama con una serie di ordini esecutivi, che avrebbero protetto dall’ordine di rimpatrio milioni di immigrati clandestini che rispettano le leggi e hanno una vita in America. Il pareggio 4-4 ha rimandato il caso alla decisione della corte d’appello di New Orleans, che si era espressa contro la manovra del presidente, invocando un abuso del potere esecutivo. Per Obama è una sonante sconfitta politica, aggravata dal fatto che con l’ascesa di Donald Trump l’immigrazione è diventato uno dei temi dominanti della campagna elettorale, cosa che non era immediatamente prevedibile al tempo degli ordini di protezione.
Un irritato Obama ha parlato di una decisione “frustrante per coloro che lavorano per la crescita economia e sperano di portare razionalità nel sistema d’immigrazione”, un pronunciamento “che spezza il cuore ai milioni di immigrati che si sono fatti una vita qui”. Non c’è nulla di più facile che rappresentare la disputa come uno scontro fra i buoni che favoriscono l’immigrazione misericordiosa e i cattivi che vogliono il muro al confine con il Messico. Il fatto, però, è che la decisione del tribunale e la (non) decisione della Corte suprema non parla dell’immigrazione, ma della divisione dei poteri. Ciò che stabilisce è che il presidente non ha il potere di emettere ordini del genere se non invadendo le prerogative del Congresso, cioè dei legislatori eletti dal popolo. Ma Obama, si sa, preferisce il modello della “presidenza imperiale”, con le toghe imparziali ridotte ad ancelle del potere esecutivo.