L'Asia che non capiamo. Due modelli
Ha chiesto ai filippini di rivolgersi a lui chiamandolo solo “presidente”, e non più con l’appellativo di “sua eccellenza”. Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte gode di un consenso quasi assoluto: secondo l’ultimo sondaggio di Pulse Asia, il 91 per cento dei filippini dice di avere fiducia nella sua politica. In un paese reso instabile dalla guerra con i gruppi armati comunisti, dai gruppi separatisti di ispirazione islamica come il Moro, da gruppi terroristici vicini allo Stato islamico come Abu Sayyaf, dalla criminalità organizzata, perfino l’agenzia americana d’intelligence Stratfor ieri spiegava perché soltanto The Punisher, come viene chiamato Duterte, potrebbe portare la pace nelle Filippine. A quale prezzo? Duterte voleva fare la guerra ai trafficanti di droga, ha chiesto ai poliziotti – e anche ai cittadini – di “non farsi scrupoli a sparare a un criminale”, e quelli hanno eseguito: almeno 18 sospetti spacciatori sono stati trovati morti in differenti circostanze lo scorso fine settimana, e salgono a quasi duecento i presunti spacciatori ammazzati dall’elezione di Duterte. Alcuni di loro sono stati uccisi e poi lasciati per strada, con un cartello al collo. Centinaia di spacciatori si sono già consegnati alle autorità per via del clima di terrore. Secondo il Philippine Star, durante un comizio in quel girone infernale che è la baraccopoli di Tondo, a Manila, Duterte ha detto: “Se conoscete qualche tossico, non pensateci e ammazzatelo”. E poi: “Questi figli di puttana distruggono i nostri figli”.
A tremila chilometri di distanza verso nord, in un altro arcipelago, un’altra dimensione. Secondo i dati di ieri dell’Agenzia nazionale di Polizia giapponese, nei primi sei mesi del 2016 i casi di criminalità in Giappone sono diminuiti del 9,3 per cento. In tutto il territorio, 488.900 crimini, il livello più basso dal 1989. Filippine e Giappone sono due paesi incomparabili: per demografia, geografia, economia, tradizione politica. Eppure i due modelli sono i più asiatici: quello filippino, che risponde agli istinti di sopravvivenza in una democrazia giovane, nata dalle macerie di Marcos, e il modello giapponese, con la sua natura tradizionalista del rispetto dell’autorità, governato da un leader conservatore forte, nazionalista, che pensa con affetto al Giappone imperiale. Agli occhi di un occidentale che s’interroga sul reato di tortura e lancia campagne sui social network, due modelli tragicamente incomprensibili ma di cui dovremmo iniziare a parlare.