Quanto è pericoloso il cocktail tra islam politico e autoritarismo
Roma. La promessa che Barack Obama fece nel 2009, nel celebre discorso del Cairo che voleva restaurare il dialogo tra gli Stati Uniti e il mondo musulmano, non è stata mantenuta. Allora, il neopresidente Obama voleva aggiustare una relazione che, secondo lui, era stata sfasciata dalle guerre bushiane, criticate duramente nelle piazze arabe: ha poi scoperto che la bandiera americana continua a bruciare, per quanto Washington si sforzi di tendere le mani della diplomazia e fare guerre a bassa visibilità. Jackson Diehl, vicedirettore delle pagine degli editoriali del Washington Post, scrive che il presidente americano “ha iniziato” la sua opera di restaurazione “con la Turchia e con l’Egitto, alleati vitali che sembravano pronti al cambiamento”. Questi due paesi hanno “sì cambiato il loro sistema politico e il loro rapporto con gli Stati Uniti”, scrive Diehl, “ma il risultato è un disastro per gli interessi americani”. Sono entrambi diventati più autoritari, pure se in modi differenti, “ma la loro particolarità distintiva è l’antiamericanismo”: sono “paranoici nella loro visione degli Stati Uniti”, non soltanto abbracciano “teorie del complotto anti americane, ma le articolano pubblicamente”. Anche Yaroslav Trofimov, columnist del Wall Street Journal, ha pubblicato nel fine settimana un minisaggio che mette insieme Egitto e Turchia, ma con un obiettivo che va al di là della svolta autocratica e del fallimento della presidenza obamiana: Trofimov vuole spiegare la crisi dell’islam politico. Egitto e Turchia si assomigliano perché entrambi hanno un “deep state” legato all’apparato militare, secolarizzato, e “partiti islamici che vogliono ottenere più potere possibile una volta eletti a causa della loro paura legittima di non avere altrimenti possibilità di ottenerne alcuno”: “Questo conflitto ciclico – scrive Trofimov – è la ragione principale per cui la democrazia non riesce ad attecchire in medio oriente”.
L’eccezione, come si sa, è la Tunisia, “l’unico paese che è definito ‘libero’ da Freedom House su 17 paesi a maggioranza musulmana nel medio oriente e nell’Africa del nord”, scrive Trofimov sul Wall Street Journal, per quanto continui a essere una roccaforte del jihadismo, nelle sue aree rurali: secondo le stime ci sono tremila foreign fighter tunisini che si uniscono alle battaglie dello Stato islamico e di al Qaida. C’è molto da fare prima che la democrazia abbia davvero una possibilità di successo, dice l’esperto Hassan Hassan intervistato nel saggio, “ma il problema della democrazia non è collegato soltanto all’islam, una religione antica, ma all’islam politico, un’ideologia moderna sviluppata nel XX secolo in Egitto, in parte per rimediare all’arretratezza del medio oriente rispetto all’occidente”, scrive Trofimov. “I padri fondatori” dell’islam politico “nella Fratellanza musulmana sono stati uccisi, ma le loro idee si sono radicate dopo i fallimenti dei regimi autocratici che predicavano il socialismo e il nazionalismo arabo. I germogli della Fratellanza ora rappresentano i movimenti politici più importanti dal Marocco alla Turchia alla Striscia di Gaza”. Ennahda, partito tunisino della Fratellanza musulmana, eletto dopo la primavera araba, nel 2013 “optò per un approccio pragmatico al potere: accettò compromessi sul ruolo dell’islam nella società mentre si riscriveva la Costituzione e accettò anche un’elezione che di fatto gli tolse il potere”. Senza istinto di vendetta o esclusione, il leader di Ennahda Rached Ghannouchi ha detto al congresso del partito di recente: “Noi possiamo perdere, ma la Tunisia vincerà”. Basta confrontare questo atteggiamento con qualsiasi altro nella regione e si capirà perché la Tunisia continui a rappresentare un’eccezione solitaria.
In paesi cruciali come l’Egitto e la Turchia, partner degli Stati Uniti, “il confronto politico è diventato un gioco a somma zero”, scrive Trofimov. I paesi occidentali non hanno più strumenti a disposizione per promuovere un’agenda democratica, “soprattutto dopo che l’Amministrazione Obama ha lavorato per ridurre il proprio coinvolgimento in medio oriente e poteri illiberali come la Russia e la Cina hanno allargato la loro influenza”. La memoria è lunga, in Egitto, dove l’America ha prima sostenuto la dittatura di Mubarak per paura di una tirannia teocratica, poi il governo islamico di Morsi e infine il colpo di stato del generale Sisi, “accolto con entusiasmo dai poteri secolarizzati e liberali – che poi si sono trovati obiettivo della repressione che ne è seguita”, precisa Trofimov. In Turchia è accaduta la stessa cosa, soltanto che il regime di Recep Tayyip Erdogan, sostenuto dall’occidente nonostante la deriva autoritaria e islamista (la politica dell’immigrazione europea dipende da Ankara), è riuscito a fermare il golpe dei militari e adesso sta regolando i conti con l’esercito e tutta la società civile, considerando i partner americani – che sono anche alleati della Nato – complici del colpo di stato fallito. Come si sa, all’inizio della sua carriera alla guida della Turchia, nel 2002, Erdogan era considerato un riformatore, ma “questi islamisti moderni – scrive Trofimov – hanno spesso interpretato la democrazia non come un valore ma come una tattica per per imporre un ‘vero’ ordine islamico”. In questo contesto – che sperimentiamo già dal 1979 in Iran, dove la teocrazia è completa, senza infingimenti – le elezioni sono soltanto uno strumento di bilanciamento del potere o al limite di dimostrazione di forza nei confronti dei partiti secolarizzati. “Politici ed elettori che credono nella supremazia della legge islamica inevitabilmente si trovano in conflitto con il principio della democrazia ogni qualvolta un altro partito indica una strada differente”.