La dissimulazione del jihad
Ad Adel Kermiche, l’attentatore islamico che martedì ha sgozzato don Jacques Hamel nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, è bastata una frase per far credere ai giudici che si era “ripulito”: “Sono un musulmano che si basa sui valori della misericordia e della benevolenza”. Ieri, il Monde, che ha recuperato le carte del fascicolo giudiziario del terrorista, ha così risposto alla questione che ha fatto scorrere molto inchiostro in questi due giorni, sul perché un individuo come Adel Kermiche, nonostante la schedatura S per radicalizzazione e i due tentativi di andare in Siria per fare il jihad, fosse stato posto in libertà vigilata con il braccialetto elettronico.
Adel, il ragazzo “simpatico, sorridente e scherzoso” diventato “strano e silenzioso” secondo i suoi ex compagni di scuola, aveva semplicemente imparato l’arte della dissimulazione islamica, la taqiyya, prima di farsi mandare ai domiciliari e approfittare delle quattro ore di libertà per colpire un infedele da soldato dello Stato islamico. Come Salah Abdeslam, e quel trio birra-fumo-ragazze che aveva ingannato i servizi francesi, Kermiche aveva assicurato al magistrato di essersi pentito per i tentativi di andare in Siria, di essere pronto per una nuova vita, di essere cambiato, di volersi sposare, mettere su famiglia, rivedere gli amici e avere un lavoro come tutti quelli della sua età. Ma stava dissimulando, nascondeva quelle che erano le sue vere intenzioni: “Non sono un estremista”, disse al giudice che lo ha rilasciato. E’ il perfetto emblema di quell’occidente buonista che continua a baloccarsi nella pia illusione di avere a che fare con ragazzini sperduti e povere vittime della società, quando invece preparano i loro atti con scientificità e glaciale spietatezza.
Cosa c'è in gioco