La civiltà in topless e burkini
Sono comprensibili le preoccupazioni di Manuel Valls sul significato della proliferazione di veli islamici in Francia. E’ fortissima la sfida comunitarista che l’islam politico ha lanciato alla laicità francese e non da oggi. Molto meno solida l’idea di mettere al bando il burkini, il costume da bagno delle timorate donne musulmane. (E qui sorvoliamo sull’idea pazza secondo la quale proibendo il burkini forniremmo pretesti per altri attentati terroristici; caro ministro Alfano, è la nostra stessa esistenza di giudeo-cristiani che gli islamisti vogliono distruggere). Fatto salvo il principio che ognuno al mare si veste come vuole – nudisti, donne in topless e bikini insegnano – c’è qualcosa di ipocrita al fondo della vicenda. Non si può ridurre lo scontro di civiltà, che fermenta dall’11 settembre, a un costume da bagno. Gli stessi che si scandalizzano per il burkini non battono ciglio (e forse godono) quando le chiese sono convertite in moschee, o quando dodici vignettisti sono trucidati per aver ritratto il Profeta dell’islam.
Inoltre, a nutrire il rigetto islamico dell’Europa è spesso proprio la nostra sciatta mentalità secolarista. Non solo questa laicità coatta non ha risposte al terrorismo islamico, ma lascia anche gli europei dubitare su ciò per cui valga la pena combattere, uccidere e morire. Prima la Francia concede la ghettizzazione delle donne in piscina o in palestra, poi però si irrigidisce e pensa di multare braccia e gambe coperte al mare. Tutto ciò non è un bel vedere. Se si crede, come fanno i laicisti, che i nostri valori siano semplici incidenti della storia e che il bene più alto sia il comfort, allora non è difficile immaginare come possa finire lo scontro fra un mondo che si spoglia, il nostro, e un mondo che si copre, il loro.