Duemila frustate per un tweet ateo
L’International Humanist and Ethical Union, l’associazione che raggruppa centoventi organizzazioni “atee, razionaliste e umaniste” in oltre quaranta nazioni, tempo fa ha pubblicato la sua “watch list” per denunciare i paesi che perseguitano i “senza dio”. In classifica svettano sette paesi islamici, Afghanistan, Iran, Maldive, Mauritania, Pakistan, Arabia Saudita e Sudan, dove gli atei rischiano la morte. In Arabia Saudita un ragazzo è stato appena condannato a dieci anni di carcere e a duemila frustate per aver twittato di essere ateo. Il reo ventottenne si è rifiutato di pentirsi, insistendo che quello che ha scritto rifletteva le sue convinzioni e che aveva il diritto di esprimerle.
Il defunto re Abdullah dell’Arabia Saudita aveva introdotto leggi che definiscono gli atei come dei terroristi, punendo “il pensiero ateo in qualunque forma, per la messa in discussione dei fondamenti della religione islamica, che è la base di questo paese”. E la polizia religiosa del regno islamico, che monitora i social network, ha già punito 600 tweet che negano l’esistenza di Allah e irridono i versetti coranici. Accade in Arabia Saudita, che lo scrittore algerino Kamel Daoud ha emblematicamente definito “uno Stato islamico che ce l’ha fatta”. Ma accade anche in un partner strategico “moderato” per l’Europa come la Turchia, dove Bulent Kenes, ex caporedattore del quotidiano turco Zaman, è stato condannato a due anni di carcere per aver “insultato” il presidente Recep Tayyip Erdogan in una serie di tweet. I nostri coraggiosi atei militanti dovrebbero uscire dall’ossessione per il cosiddetto “oscurantismo cattolico” e dare uno sguardo a quanto accade loro nelle teocrazie islamiche.