La sottomissione chic dell'hijab
"Godetevi la differenza – praticate la tolleranza”, dice la bionda dagli occhi azzurri in un nuovo spot televisivo tedesco, sfoggiando un copricapo musulmano. Realizzato con il contributo dell’Unesco, il filmato dura diciotto secondi e incoraggia le donne a indossare l’hijab. Lo spot inizia con il testo “le donne turche indossano il velo”, per finire con: “Anche io! E’ bellissimo!”. Negli stessi giorni, la rivista Playboy lancia Noor Tagouri come coniglietta velata.
L’aspetto più sorprendente della storia del velo e del burkini è l’interesse occidentale non musulmano per questa veste. Ismail Sacranie, uno dei fondatori di Modestly Active, il produttore del burkini, ha detto al New York Times che il 35 per cento dei suoi clienti è non musulmano. Stessa percentuale secondo Aheda Zanetti, la libanese che vive in Australia e che ha creato il burkini. Zanetti sostiene che oltre il 40 per cento delle vendite sono a non musulmane. Lo scorso aprile, gli studenti islamici di Parigi hanno “invitato” i compagni di studi non musulmani all’Università Sciences Po a provare il velo.
Un establishment conformista e iper inclusivo ha trasformato il velo in un simbolo dei diritti umani e in una nuova frontiera nella grande conquista della tolleranza. Il velo come causa politica. Gli islamisti hanno perfettamente capito la psicologia dominante tra le élite occidentali terrorizzate di essere tacciate di “islamofobia”. Dopo le aggressioni sessuali a Colonia, molte femministe furono a dir poco reticenti. C’è una ironia in questa pirouette ideologica: un giorno, i fondamentalisti islamici imporranno velo e burkini anche a queste donne occidentali. Sarà una giornata campale.