La non-normalizzazione turca
Nelle prime ore della mattina di ieri, la polizia turca ha iniziato l’operazione finale contro il giornale di opposizione Cumhuriyet. Con accuse generiche di “terrorismo”, di affiliazione al gruppo di Fethullah Gülen (arcinemico del presidente Recep Tayyip Erdogan) e al Pkk curdo, le autorità hanno arrestato Murat Sabuncu, il direttore del giornale, insieme ad altri dieci giornalisti, tra cui alcuni dei più rispettati columnist della testata. I poliziotti sono entrati nella redazione del quotidiano e nelle case dei giornalisti di opposizione, hanno sequestrato beni e documenti e portato via Sabuncu e i suoi colleghi. Altre quattro persone che fanno parte dell’amministrazione del giornale sono ricercate ma sono riuscite a fuggire o si trovavano all’estero al momento del raid. La polizia ha inoltre perquisito la casa di Can Dündar, predecessore di Sabuncu alla direzione del giornale, e ha emesso un mandato di arresto a suo carico. Cumhuriyet è entrato nel mirino di Erdogan dopo la pubblicazione di un’inchiesta in cui rivelava gli aiuti inviati da Ankara ai ribelli islamisti in Siria. Per quell’inchiesta Dündar è stato condannato a cinque anni di prigione, e costretto a fuggire in Germania.
Gli arresti e i raid di ieri sembrano emanare dalla volontà del sultano di chiudere i conti con una delle ultime voci dell’opposizione rimaste in Turchia, e arrivano un giorno dopo l’ennesima purga contro l’opposizione, vera o presunta: domenica il governo ha fatto chiudere ben 15 mezzi d’informazione non allineati, e ha annunciato il licenziamento di altri 10 mila dipendenti statali. Questo porta il numero delle persone sospese o licenziate dopo il fallito colpo di stato di luglio a circa 110 mila, mentre 37 mila sono gli arresti. A più di quattro mesi dall’inizio delle purghe, Ankara sta cercando di normalizzare i suoi rapporti con l’esterno. La retorica incendiaria di Erdogan si è almeno in parte placata, e la Turchia cerca di mostrarsi un partner nelle operazioni contro lo Stato islamico in Siria (dove è attivo l’esercito turco) e in Iraq. Ankara sa che la guerra al terrorismo è molto più difficile senza la Turchia, e la crisi dei migranti dà a Erdogan buoni argomenti di persuasione con l’Europa. Ma l’occidente non deve dimenticare che la normalizzazione dissimulata non è mai avvenuta davvero. Dietro la facciata, le purghe continuano, e il sogno della Turchia laica e liberale rischia di spegnersi sempre più definitivamente.
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