Il Marocco sta per bandire il burqa

Redazione

La decisione del governo è stata presa per motivi di sicurezza. Ma i salafiti insorgono

Il Marocco sta per mettere al bando la produzione e la vendita del velo islamico integrale. Nonostante non siano ancora giunti comunicati ufficiali del governo, i media locali hanno diffuso la notizia, specificando che le nuove misure potrebbero entrare in vigore già dalla settimana prossima. Il velo integrale non è molto comune nel paese nordafricano, dove la maggioranza delle donne preferisce indossare un foulard che copre i capelli, anche se in alcune famiglie conservatrici e salafite è usato il niqab, che lascia scoperti solo gli occhi. Per questo motivo, stando ai media locali, il governo di Rabat non intende introdurre il divieto per motivi sociali, ma di sicurezza. Stando a fonti del ministero dell'Interno, per i criminali è facile dissimulare un’arma sotto il velo. Se il governo confermerà la notizia, sarà vietata la produzione e la vendita del burqa e i negozianti avranno un arco di tempo limitato per liquidare gli inventari.

 

Non mancano però le resistenze nel paese: i salafiti hanno definito la decisione del governo una violazione dei diritti umani. Secondo i più conservatori sarebbe “ingiusto” vietare il burqa e allo stesso tempo garantire il diritto di indossare abiti occidentali come i bikini. Da anni il paese è diviso dalla rivalità tra le componenti più conservatrici, come i salafiti che si oppongono a ogni tentativo di occidentalizzazione, e i riformatori. Molte delle riforme volute dal re Mohammed VI, che sostiene un islam moderato, hanno suscitato la rabbia dei conservatori. Dopo le primavere arabe, il monarca ha promulgato leggi che puntano ad aumentare i poteri del governo e del Parlamento, riforme che hanno risparmiato al Marocco le turbolenze politiche della Tunisia o dell’Egitto. Tuttavia, le ong occidentali hanno accusato il governo del paese di essere autoritario. Il re Mohammed VI e il Partito della giustizia e dello sviluppo, che ha la maggioranza in Parlamento dal 2011, sono accusati di ripetute violazioni dei diritti umani.

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