La radicalizzazione di Podemos
Dopo il congresso, il populismo spagnolo è ancora più intransigente
Circola in Europa la credenza che nel mezzo della tempesta populista che ha colpito il continente, la Spagna se la sia cavata meglio degli altri. Gli italiani se la devono vedere con l’incompetenza strutturale del M5s, i tedeschi e gli olandesi subiscono l’avanzare pericoloso dell’ultradestra, ma Podemos, al netto delle follie su debito pubblico, nazionalizzazioni e redditi di cittadinanza vari, è pur sempre una forza europeista, pro euro e strutturata come un partito tradizionale. Il congresso di Podemos che si è tenuto a Madrid lo scorso fine settimana, al contrario, mostra che la retorica del “meno peggio” è infondata, e che la Spagna è tutt’altro che esente dai mali del populismo. Davanti alla scelta tra una proposta radicale e intransigente volta a ribaltare l’ordine politico costituito, incarnata dal segretario Pablo Iglesias, e una proposta più dialogante e socialdemocratica, incarnata dal numero due Errejón, domenica i militanti di Podemos hanno scelto a grandissima maggioranza per la prima, e ora Iglesias si prepara a rifondare il partito come un piccolo soviet. Sono in arrivo le purghe, e l’accentramento del potere nelle mani del segretario è tale che si parla scherzosamente di “pablismo-leninismo”. La terminologia sovietica non è casuale: nella nuova dirigenza, hanno notato i commentatori spagnoli, Iglesias ha chiamato a sé tutti collaboratori formatisi nel vecchio Partito comunista spagnolo, uomini d’apparato ideologicamente rigidi. Sembrano scomparse le frange disubbidienti e di indignados che rendevano Podemos un movimento tutto sommato eclettico, è nato un Partito comunista 2.0. Se alla Spagna va un po’ meglio, allora, è perché dall’altro lato dello spettro politico c’è un leader ancora capace di fare la sintesi tra le forze moderate. Anche lui ha vinto il congresso del suo partito domenica, è Mariano Rajoy.