Contro il piagnisteo anti europeista
Cassese spiega perché oggi l’Unione europea funziona meglio degli Stati Uniti
Professor Cassese, il presidente Napolitano, sulla Stampa dell’11 febbraio scorso, ha scritto che l’Europa ha bisogno sia di risposte urgenti a problemi aperti, come i flussi migratori, sia nuovi impulsi per il futuro. Lei concorda su questa agenda e quale diagnosi fa della situazione?
Comincio dalla diagnosi. In primo luogo, l’Unione “morde” sugli Stati e negli Stati come mai era successo prima d’ora. Lo sanno quelli che vogliono la proroga di una concessione, i governi che debbono trattare con la Commissione per farsi approvare aiuti a imprese in difficoltà, i cittadini europei che possono denunciare alla Commissione inadempienze rispetto al diritto comunitario dei loro governi e delle loro pubbliche amministrazioni. Poi, mai come ora si sono fatti passi avanti così vigorosi e rapidi: pensi solo alla introduzione della moneta unica e dell’Unione bancaria, e le compari ai secoli che ci sono voluti per costruire gli Stati in Europa e a unificare lentamente moneta, fisco, eserciti. Paradossalmente, mai come ora l’Unione stessa e gli europeisti si piangono addosso, lamentando lentezza, incertezze, carenze.
Lo sappiamo, professor Cassese. Lei si è espresso altre volte contro il “piagnisteo europeo”. Perché?
Per due motivi. Perché, innanzitutto, si vàluta com’è l’Unione rispetto a come potrebbe essere o si vorrebbe che fosse, invece che com’è oggi rispetto a come la si voleva ieri. Sessant’anni fa, si pensava che l’Europa avrebbe avuto una legislazione comune ambientale, bancaria, dei servizi pubblici? Allora si voleva uscire da un cinquantennio di guerre, che aveva causato circa 85 milioni di morti, la maggior parte dei quali nel teatro europeo. Grande successo: il sessantennio passato non ha visto guerre in Europa.
E l’altro motivo di critica del “piagnisteo europeo”?
Riguarda gli europeisti. Armellini e Mombelli, in un bel libro appena uscito (“Né Centauro né Chimera. Modesta proposta per un’Europa plurale”, Marsilio), li hanno distinti in sostenitori del modello “condominio” e sostenitori del modello “casa comune” (i primi vogliono salvaguardare gli Stati, ma mettere in comune una parte dei loro compiti, i secondi pensano che tutto vada messo in comune). Ora, gli uni e gli altri non si rendono conto di due loro debolezze, debolezze molto pericolose. Che le loro critiche dall’interno, unendosi a quelle degli antieuropeisti, possono produrre una miscela pericolosa. E che i pianti sulla crisi dell’Europa dovrebbero coinvolgere la crisi dell’europeismo. In altre parole, penso che gli europeisti delle due specie dovrebbero – come si suol dire – “passarsi una mano sulla coscienza”.
E gli antieuropeisti?
Sono di molte specie. Ci sono, innanzitutto, critiche nell’Unione e critiche all’Unione. Queste ultime provengono da parti diverse, nazionalisti, sovranisti, scettici e populisti (la classificazione è contenuta in un bel saggio di Yves Mény e Giorgio Mocavini, che vedrà presto la luce). Si mescolano proposte diverse, molte delle quali sono rivolte solo ad alcune politiche (c’è chi vuole uscire dalla moneta unica, chi vuole che gli Stati si impadroniscano nuovamente del pieno controllo delle frontiere). Ma c’è anche qualcosa in comune: il populismo è intrinsecamente nazionalistico. Il rifiuto delle élite comporta un ripudio dei vertici europei.
Questa è la geografia dell’antieuropeismo. Ma qual è il suo giudizio delle proposte?
Sono, in primo luogo, ben poco chiare e solo in pochi casi giungono agli estremi del Regno Unito. Poi, non dovrebbero essere drammatizzate, specialmente da noi italiani: l’Italia, dopo l’unificazione, per qualche decennio, ha avuto metà paese dominato da forze contrarie, bollate con il nome di “brigantaggio”. Ci meravigliamo ora che un nuovo organismo politico abbia al suo interno forze che vi si oppongono?
Professor Cassese, non eccede in ottimismo?
No, anzi le dico di più. Habermas scrisse parecchi anni fa che l’Europa si sarebbe costituita veramente quando si sarebbero create sfere pubbliche comunicanti. Paradossalmente, queste sorgono ora grazie agli antieuropeisti, agli incontri tra populisti-nazionalisti. L’opposizione rende l’Unione un vero e proprio corpo politico. Questo è tale proprio in quanto contestato, perché la politica è innanzitutto dialettica. E questo potrebbe condurre a qualcosa di più dell’attuale debole “permissive consensus” popolare sull’Unione. Posso formulare un paradosso? L’Unione entra nella sfera della politica europea (non in quelle nazionali), proprio grazie alla contestazione pan-europea. Naturalmente, bisognerà vedere se l’opposizione alla disunione saprà suscitare un corpo di sostenitori unito transnazionale.
E l’Italia? Qui ci si lamenta di essere sempre sotto osservazione dell’Unione, come un ragazzo discolo.
Questa è un’altra delle nostre contraddizioni. De Gasperi per primo volle il “vincolo esterno”, per ragioni politiche generali, per legare l’Italia all’occidente, quando c’era la “cortina di ferro”. Poi Carli lo volle perché l’Italia, essendo paese poco virtuoso, si legasse al carro dei paesi che sono virtuosi. Ora, noi che l’abbiamo voluto, ce ne lamentiamo.
Ma il “vincolo esterno” non è per sempre.
Errore! Quello che chiamiamo “vincolo esterno” non è altro che una forma di “horizontal accountability”. Quel principio in base al quale tutte le moderne costituzioni si aprono al diritto internazionale e tutte le nazioni si sentono coinvolte nelle vicende interne delle altre nazioni. Un vicino stabile e retto in forme democratiche è molto meglio di un vicino instabile e retto da dittature o senza un sistema politico robusto. Per questo l’Onu stabilisce standard e tutti i governi debbono rispondere non solo ai loro elettorati, ma anche agli altri Stati. Pensi alle pressioni che l’Unione europea sta esercitando sulla Polonia, perché quel paese rispetti il diritto. Così la democrazia si arricchisce, non si depaupera, come invece ritengono i “sovranisti”.
Ritorniamo a Napolitano.
Ha ragione nel dire che occorrono alcuni interventi urgenti. Uno riguarda la gestione dei flussi migratori. Un altro riguarda il controllo del terrorismo. Sono compiti che nessuno Stato può affrontare da solo. Poi c’è bisogno di infondere nuova vita nell’europeismo, rimasto fermo alla contrapposizione tra la visione di Spinelli e quella di De Gaulle. La prima è sempre stata irrealistica, perché una costruzione sovranazionale non riesce ad affermarsi nel luogo e sui territori dove sono nati e si sono consolidati gli Stati, sostituendoli. Inoltre, l’Unione ha bisogno degli Stati. Seguiamo invece la lezione delle unioni di Stati fiorite in passato sul territorio europeo, organismi misti, compositi. La seconda, l’Europa delle Patrie, è superata. Le ricordo quanto ha osservato qualche tempo fa uno dei maggiori giuristi americani, Guido Calabresi: l’Unione europea è più unita degli Stati Uniti. Per dimostrarlo, Calabresi ricordava che la proibizione della pena capitale è un principio condiviso in Europa, mentre gli Stati che fanno parte degli Stati Uniti d’America sono divisi: alcuni ammettono, altri vietano la condanna a morte. Non le pare importante registrare questa differenza su uno dei beni fondamentali dell’uomo, la vita?
Resta un distacco delle politiche nazionali rispetto a quella europea.
Ma questo dipende da un fatto strutturale: le rispettive classi dirigenti non si sono abituate alla multipolarità della politica imposta dal carattere composito dell’Unione europea, che è, nello stesso, tempo, Unione e associazione di Stati. L’hanno capito coloro che hanno spinto verso un dialogo tra i Parlamenti, o come quelli (penso agli autori del libro che ho citato prima, Armellini e Mombelli) che propongono di affiancare al Parlamento europeo una assemblea che unisca rappresentanti dei Parlamenti nazionali.