Scorretti al tempo di Trump
Può davvero sopravvivere il politicamente scorretto nell’epoca cinica, anti liberale e fintamente controvento di Trump? Girotondo fogliante di opinioni (indizio: sì, può)
Ci siamo interrogati a lungo, durante la campagna elettorale americana, sul trumpismo e il politicamente scorretto, sul rompere gli schemi della prevedibilità d’establishment e il rischio poi di diventare tutti soltanto un po’ più volgari, un po’ più beceri. Ora che Donald Trump è realtà e le sue dichiarazioni forgiano la politica americana, quella domestica e quella estera, la domanda è ancora più pressante, perché analizzare il presidente Trump – e non più soltanto il fenomeno Trump – si sta rivelando faticoso, anzi a volte persino un po’ imbarazzante. Così abbiamo deciso di affidarci ad alcuni commentatori ed esperti, vituperatissimi esperti, per rispondere a questa domanda: si può ancora essere politicamente scorretti al tempo di Trump? E come? Ecco il nostro girotondo d’opinioni.
Contro la scellerata logica della tribù
Si può. Si deve essere politicamente scorretti. Fa bene e tiene il cervello in allenamento, organo che in tempi grillini può sempre servire. Evita la scellerata logica della tribù: il ragionamento che fa dire “i nemici dei miei nemici sono miei amici”. A Donald Trump non piace la correttezza politica, a noi non piace Donald Trump, per questo dovremmo coltivare quel che abbiamo disprezzato e ridicolizzato per decenni? Si comincia così, e si finisce per diventare opinionisti. Continueremo a essere scorretti, se scorrettezza vuol dire non far finta di apprezzare i film sui neri e le loro vite disgraziate (per i cultori, sta arrivando “Barriere”, vanity movie diretto da Denzel Washington). Preferiamo godere il bianchissimo e allegrissimo – e per nulla incerto o confuso quanto a generi sessuali – “La La Land” di Damien Chazelle. Quando i tempi erano più duri dei nostri, subito dopo la Grande Depressione, Hollywood sfornava magnifiche commedie sofisticate. Un film da dibattito non ha mai cambiato la vita ai poveri, l’impresa riesce meglio alla vituperata globalizzazione. Il film da dibattito fa solo sentire a posto quando bisogna scegliere il cuoco con le stelle giuste per impiattare la cena. Continueremo a essere politicamente scorretti, se scorrettezza vuol dire non considerare buono e giusto tutto quel che le donne pensano e fanno. Non è stata una bella mossa distruggere scientificamente la candidata Hillary Clinton. Lena Dunham che dichiara “mi si è stretto lo stomaco, non mangio più, per questo sono dimagrita” ha perso una buona occasione per tacere (e sembrare la ragazza intelligente degli inizi). Continueremo a essere politicamente scorretti se tre soldatesse israeliane ammazzate da un terrorista palestinese non hanno diritto al commosso articoletto “i loro sogni, le loro speranze” dovuto a qualsiasi vittima di disastro naturale o di pullman finito giù dalla scarpata. Continueremo così. Anche perché ai politicamente corretti, un passetto oggi un passetto domani, Donald Trump sta cominciando a piacere.
di Mariarosa Mancuso
Il politicamente corretto dell’oscenità
C’è un equivoco sull’utilizzo dell’espressione “politicamente scorretto”. Dire qualsiasi scemenza, magari con toni volgari, non è “politicamente scorretto”, è appunto una scemenza o una volgarità. Un esempio: quando Umberto Bossi disse “Signora, col tricolore si pulisca il culo”, noi del Foglio – allora lavoravo ancora qui – non facemmo un elogio del politicamente scorretto, non dicemmo ah finalmente qualcuno dice la verità, ma semplicemente commentammo: questa è una scemenza e una volgarità. Essere politicamente scorretti significa affrontare alcuni temi in modo inusuale, dire cose sgradevoli, andare contro il vento della dittatura del bene. Non è anticonformismo, c’è anche una schiettezza del linguaggio che annulla la parola d’ordine consolatoria: è così che la scorrettezza diventa contenuto e non rissa da bar. Donald Trump utilizza un linguaggio e un approccio che non sono politicamente scorretti, sono niente più che turpiloquio banalizzante. Accade anche nella politica italiana, ormai da molti anni: non è più possibile avere discussioni sul contenuto delle cose, ma si finisce per avere soltanto scambi di accuse e insulti. Ecco, il rischio con Trump, e qui da noi è già abbastanza evidente, è che al politicamente scorretto si sostituisca un politicamente corretto dell’oscenità.
Mattia Feltri giornalista de La Stampa (testo raccolto dalla redazione)
Contro l’associazione dei permalosi
Montale visse al cinque per cento, io scrivo alla stessa percentuale, e l’elezione di Donald Trump non ha aumentato la dose. Forse negli Stati Uniti il cemento armato del pensiero unico si sta incrinando, io però leggo che un omosessuale non omosessualista nemmeno adesso può parlare a Berkeley. Qui in Italia i tabù sono tutti in splendida forma e proprio l’elezione di Trump ha fornito il pretesto per dar loro una bella lucidata: guardate cosa succede a lasciar parlare liberamente quelli che non la pensano come noi! Presto, torniamo alla mordacchia! Questa parola chissà perché mi ha fatto venire in mente il potere temporale, forse bisognerebbe parlare dell’ecclesiasticamente corretto, un galateo lessicale imposto con secentesca fermezza. Oggi nella Chiesa non si può dire nulla, altro che parresìa (favola a cui possono credere giusto i lettori di Avvenire). I preti che non la pensano esattamente come il Papa vivono nel terrore e si confidano solo dopo accordo di segretezza. E’ naturale che spuntino i manifesti anonimi: Pasquino è tornato perché è tornata la censura. C’è un pensiero unico cattolico, che fra l’altro mi sembra non cattolico e magari sarà quello prefigurato da Paolo VI nel famoso colloquio con Jean Guitton (1977). Molti versetti dell’Antico e anche del Nuovo Testamento non sono più citabili, io che non sono prete né frate dell’Immacolata né cavaliere di Malta li cito lo stesso, non è che mi possono esiliare in Uganda, al massimo possono accusarmi di geovismo (è accaduto) siccome oso credere nella Seconda lettera di San Giovanni evangelista che molto esplicitamente proibisce l’accoglienza indiscriminata (testo dal sapore biffiano e girardiano ben prima che trumpiano, vorrei far notare). Tornando al pensiero unico di ambito politico-sociale, sono stato accusato di misoginia perfino in un convegno della Lega e lì ho capito di non avere scampo. Non vedo in Italia un avanti-Trump e un dopo-Trump, continuano imperterrite a pullulare le associazioni di permalosi che non vedono l’ora di querelarti per islamofobia, omofobia o razzismo. Per questo scrivo così spesso di lambrusco e di tabarri: i produttori di cabernet e quelli di cappotti sono gli ultimi liberali, non mi hanno ancora minacciato di morte.
di Camillo Langone
Tutti i valori stanno sullo stesso piano
Chiedete: si può ancora essere politicamente scorretti all’epoca di Trump (senza per forza stare con lui)? Si può e si deve giacché la political incorrectness è l’essenza della libertà di pensiero, il lievito di una “democrazia dei moderni” che non sia la maschera di un’aristocrazia di notabili ma un regime segnato dall’avvento delle masse sulla scena politica, in cui l’uomo qualunque vale uno quanto il decano della Stanford University. La p.i. è il grido liberatorio: il re è nudo, è la denuncia dell’abisso tra l’immagine della società che i “poteri forti” fissano nei simboli e nei discorsi ufficiali e la società quale è effettivamente. E’ il Giordano Bruno di Trilussa: “Perché si un prete jè diceva ‘è vero’ lui rispondeva: ‘nun è vero un corno!’”. E’ la protesta nei confronti dell’alterazione della realtà quando della globalizzazione o dell’integrazione europea si mettono in luce gli aspetti positivi – che pure ci sono con buona pace dei filosofi della decrescita felice – dimenticando quanti se ne trovano peggio e relegandoli negli scantinati del più bieco e ottuso rifiuto del progresso. La p.i. è consapevolezza che tutti i valori stanno sullo stesso piano e che la democrazia, per adoperare una bellissima metafora di Carlo Cattaneo, è un’immensa transazione per tenerli in equilibrio, nella consapevolezza che non ci sono valori orwellianamente più eguali degli altri. Nel nostro paese, la p.i. è la reazione del vissuto reale alle idealizzazioni della retorica: di quella fascista con le sue “centurie di ferro”, i suoi santi, eroi, navigatori, camicie nere e precursori presunti; e di quella resistenziale con le sue “coscienze intemerate”, i suoi maestri e compagni, i suoi “uomini della democrazia”, che non piegarono dinanzi alla dittatura. E’ l’intolleranza agli incensi che celebrano un passato immaginario per nascondere la feccia di Romolo della politica terrena. Una democrazia che lasci la p.i. ai suoi nemici populisti– grillini, lepenisti eccetera – si condanna al suicidio.
Dino Cofrancesco Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università di Genova
Lui mi piace, ma biosgna già andare oltre
Sono stato affascinato dal fenomeno Trump perché, da europeo e da italiano, ho trovato la sua una battaglia concreta contro tutti i luoghi comuni tipici della mentalità newyorchese e romana, un cazzotto dato in faccio non all’establishment, ma alla correttezza di quei salotti che dicono sempre la cosa giusta con la puzzetta sotto al naso. Trump ha un fascino simile al Berlusconi del 1994: rompe le righe di uno schema che sembrava acquisito. Oggi è difficile essere politicamente scorretti essendo trumpisti, per questo credo sia necessario andare oltre Trump, affermando già adesso alcune cose che il trumpismo porterà con sé. E’ probabile che fra sei mesi, un anno, Trump diventerà politicamente corretto, come successe alle battaglie di Reagan. Per questo si può combattere un certo trumpismo sapendo che presto sarà pensiero comune, e perciò svincolato da chi lo ha manifestato per primo. Un esempio? La battaglia contro la globalizzazione non è liberale, bisognerà spiegare che il processo di liberalizzazione dell’economia non è un dettaglio ma è un fondamento. Il fatto che Trump sia pro business, anzi pro old business, oggi è politicamente scorretto, domani sarà acquisito e pericoloso. In un mondo globale e iperconnesso, Trump è riuscito in modo sublime a rompere il Circle, per citare Dave Eggers, interrompendo un equivoco. Ma se è vero che tutti i fenomeni hanno tasso di pericolosità, nel tempo diventano patrimonio acquisito di un’economia libera. Per superare Trump nel suo essere politicamente scorretto biosgna andare oltre al Donald pro business, e pensare già a un Trump pro mercato, cosa che oggi non è.
Nicola Porro vicedirettore del Giornale, conduttore della trasmissione tv Matrix (testo raccolto dalla redazione)
L’unico difetto del trumpismo: non esiste
Il trumpismo ha un solo grave difetto: non esiste. Si possono scrivere libri e prendere posizioni a favore o contro il putinisimo o il lepenismo – anche se quello di Marine è diverso da quello di Jean-Marie – e il professor Giovanni Orsina ci ha assicurato in un bel libro che anche il berlusconismo esiste. Ma Trump non ha un’ideologia. Ci sono libri su di lui che hanno tentato di ricostruirla e hanno gettato la spugna. E’ stato democratico e repubblicano, abortista e anti-abortista, a favore del matrimonio gay e contro. E’ per la libertà religiosa (bene) ma pronto a limitarla nel caso del predicatore nemico di Erdogan Fethullah Gülen e dei suoi seguaci per promuovere rapporti migliori con la Turchia (male). Nomina uno straordinario giurista, in passato lodato anche dai democratici, come Neil Gorsuch alla Corte Suprema (bene) ma innesca una diatriba senza precedenti (male: gli Stati Uniti non sono l’Italia) – prontamente condannata dallo stesso Gorsuch – contro i giudici “politicizzati” che bloccano i suoi provvedimenti sull’immigrazione, probabilmente non incostituzionali ma demagogici e inutili perché la maggioranza dei terroristi entrati per davvero negli Stati Uniti aveva passaporti dell’Arabia Saudita e degli Emirati, non dei paesi della lista nera stilata (malamente) da Obama e ricopiata da Trump. Anche i vescovi cattolici americani, gli evangelici e perfino i mormoni sono spiazzati. A parte qualche estremista come il cardinale Burke – sempre con Trump a prescindere – più o meno tutti (mormoni compresi) hanno condannato l’ordine sull’immigrazione, e più o meno tutti hanno applaudito la nomina di Gorsuch e la presenza inedita del vicepresidente Mike Pence alla marcia per la vita di Washington. Il pragmatismo, l’imprevedibilità e anche la rozzezza di Trump – accentuata, ma non inventata dagli oppositori – hanno però una conseguenza importante. Si possono condividere alcune sue posizioni, anche non “politicamente corrette” – ma il politically correct è vecchio e ormai non si porta più, se non forse in qualche università e in Italia – senza arruolarsi nel suo partito, quello dei fan puri e duri di Trump, che non coincide con il Partito repubblicano americano, e senza timore di essere accusati di trumpismo. Perché, appunto, il trumpismo non esiste.
Massimo Introvigne sociologo e direttore del CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni)
In Italia c’è troppo poco pol. corr.
Nanni Moretti non ha mai girato quel musical sul pasticciere trotzkista nella Roma degli anni Cinquanta, ed è un peccato: poteva essere il suo miglior film. Il mondo invece andrà avanti tranquillamente senza il racconto che sognai di scrivere un’estate di quindici anni fa, e che avrebbe dovuto intitolarsi “Caffè scorretto”. Era la storia di un comunista ravveduto, un omaccione corpulento e sanguigno, che negli anni Novanta apriva una pasticceria a Trastevere. I dolci che preparava erano i più buoni di Roma, ma a ciascuna delle sue specialità aveva dato un nome politicamente scorrettissimo. La voce si era sparsa tra gli ex compagni di lotte, che facevano la fila per assaggiare le sue leccornie; ma il proprietario, dispettoso, non si accontentava che le indicassero con un cenno della mano. Dovevano chiedergliele ad alta voce, o niente: “Mi dia una testa di negro fondente e un culattone al rhum”. Il conflitto interiore era insostenibile: di qua la testa ben pettinata, colma di pensieri civili e rispettosi, di là gli impulsi barbarici della pancia. Per questa ragione entravano al Caffè scorretto nascondendosi dietro il bavero, come malfattori o spie, e in pubblico negavano di esserci mai stati. Il racconto – lo si è capito? – era un’allegoria del Foglio, di cui all’epoca ero un semplice lettore. E il gioco del politicamente scorretto funzionava a meraviglia con la clientela della pasticceria giornalistica di Ferrara, dove c’era qualche bourgeois che aveva senso épater. Ma in altri bar più popolari lo stesso menu, servito alla buona, era nel migliore dei casi indigesto, nel peggiore disgustoso. In Italia il politicamente corretto ricorda le vecchie signore schizzinose dei film con Tomás Milian: nessuno le ha mai viste nel mondo reale, ma stanno lì per rendere più fragoroso e liberatorio il suo rutto. L’America non c’entra nulla. Lì Trump è la reazione odiosa e scomposta a qualcosa che per due decenni ha avuto un peso innegabile sulla politica, sull’accademia e sul linguaggio pubblico. Ma la reazione presuppone un’azione. E nel paese dove un vicepresidente del Senato ha potuto dare dell’orango a una ministra di origini congolesi e restare in carica, il politicamente corretto rischia di essere uno dei tanti fantocci – il liberismo, il presidenzialismo e altre cose mai viste neppure col binocolo – che tanto ci piace abbattere ritualmente. Se va bene un pretesto per fare i dandy, se va male un alibi per imitare il Monnezza. La Boldrini è uno specchietto per le allodole, caricaturale quanto si vuole, come le signore a tavola in quei film. Quante divisioni ha il politicamente corretto? Ben poche, in Italia. C’e perfino da dubitare che esista – proprio come il mio racconto.
Guido Vitiello