La fine dell'illusione chiamata Erdogan
Lo statista coccolato dall’Europa si rivela nient’altro che un rais
Di per sé, un sistema presidenziale – come quello uscito vincente dal referendum di domenica in Turchia – non sarebbe da buttare. Il problema è che Ankara non è Washington (e nemmeno Parigi, dove pure la figura del primo ministro sopravvive, nonostante sia sovrastata dal presidente che più o meno tutto decide. La vittoria di Recep Tayyip Erdogan, che sarà pure all’ultimo voto e con cassoni di voti non timbrati, è decisiva nello smentire una volta per tutte le teorie che per quindici anni hanno dominato il dibattito sull’estendibilità delle (labili) frontiere europee agli eredi dell’Impero ottomano. Altro che partner credibile da coccolare a suon di denari e omaggi teatrali, altro che pompose certificazioni sul bastione orientale della Nato che salva l’Europa e ne protegge i confini da tutto il male possibile e immaginabile che preme dall’oriente in perenne movimento. Fino al più atroce degli errori: Erdogan come emblema dell’islam moderato che può governare abbracciato tranquillamente alle democrazie liberali dell’occidente. Ma quale autocrazia, dicevano tanti intellò – anche della sinistra nostrana – attratti dalla dolce rivoluzione turca che aveva finalmente estromesso dai gangli del potere i detestati militari. Erdogan dipinto per anni come colui che avrebbe reso “potabile” la Fratellanza musulmana, uno statista alla pari di Atatürk, insomma. Poi ci sono state le primavere arabe cavalcate con disarmante imperizia, gli ergastoli per i giornalisti ostili, le purghe contro gli oppositori, i referendum per l’accentramento del potere in due sole mani. Un’illusione durata un decennio e oggi definitivamente finita.