Il Califfato filippino
Marawi è la dimostrazione che l’Isis perde le battaglie, ma la guerra no
Siamo entrati nel nono giorno di scontri nella città di Marawi, nelle Filippine del sud. Un blitz delle Forze armate filippine finito male, il 24 maggio scorso, ha portato all’assedio da parte dei miliziani del gruppo Maute, un gruppo filippino legato allo Stato islamico, dell’intera città. Finora ci sarebbero stati più di cento morti, e migliaia sarebbero gli sfollati, mentre sui palazzi sventolano le bandiere nere del Califfato. Gli islamisti hanno rapito dei civili in una chiesa cattolica, tra cui padre Chito Suganob, che ieri è apparso in un video online mentre pregava il governo di Rodrigo Duterte di cessare i bombardamenti, gli assalti e le operazioni per liberare la città. Intanto, secondo alcune fonti d’intelligence citate dalle agenzie di stampa internazionali, al gruppo di Marawi si sarebbero uniti alcuni foreign fighter dalla Malaysia.
La situazione nelle Filippine è molto più grave di quanto si possa pensare: l’isola di Mindanao, nel sud del paese, nonostante la legge marziale imposta da Manila potrebbe essere un nuovo campo di battaglia islamista. Ed è indicativo guardare a quel che sta accadendo lì. Lo Stato islamico perde pezzi nella parte di mondo vicino a noi. La coalizione continua a infliggere notevoli perdite ai soldati del Califfato, succede in Iraq, in Siria. Ma l’idea, quell’idea di uno Stato islamico con le sue leggi, continua a rinascere. E succede anche negli angoli di mondo più lontani da noi.
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